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The Get Down 1×01 – Where There Is Ruin, There Is Hope For A TreasureTEMPO DI LETTURA 6 min

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Leaders lead and cowards cower.

Fin dai primi istanti di “Where There Is Ruin, There Is Hope For A Treasure” l’attenzione dello spettatore viene catturata da 3 elementi che poi rimarranno comunque estremamente rilevanti per tutta la puntata: durata dell’episodio, musiche e colori. I meno attenti potrebbero non aver notato la correlazione esistente tra queste caratteristiche ed il nome del regista dell’episodio (che tra le altre cose è anche creatore della serie oltre che produttore e sceneggiatore del pilot), ma il tocco di Baz Luhrmann c’è, è evidente e permea totalmente ogni aspetto di The Get Down. Nel bene e nel male.
Il buon vecchio Baz non è mai stato un regista molto semplice da capire e apprezzare, sempre più volto ad una estrema cura del dettaglio estetico e sonoro piuttosto che alla profondità psicologica dei personaggi: The Get Down non fa eccezione in tal senso. Alla sua prima “avventura” sul piccolo schermo, Luhrmann ripropone il classico schema utilizzato nelle sue pellicole più famose (Australia, Il Grande Gatsby) fatto di personaggi stilizzati e preconfezionati che vivono all’interno di un’epoca estremamente lontana dai giorni nostri e che, proprio per questo motivo, permettono al regista di descriverla a suo modo. Ecco quindi che si rimane più colpiti dai colori e dalla vivacità di una strada del Bronx o dalla discoteca Les Inferno, con la musica disco che si faceva strada in quegli anni, piuttosto che dall’intreccio amoroso che (non) lega Zeke e Mylene. In tutto ciò le Puma rosse di Shaolin Fantastic regnano sovrane.
L’aspetto che più colpisce di “Where There Is Ruin, There Is Hope For A Treasure” non è tanto la trama quanto piuttosto la cornice narrativa dentro cui viene raccontata, in una sorta di inversione dei ruoli in cui non è l’ambientazione che viene data in usufrutto ai character per la loro storia ma, al contrario, sono i character ad essere creati in maniera funzionale per la perfetta ricostruzione dell’atmosfera dell’epoca. La regia in tal senso è molto attenta a mostrare le diverse sfaccettature del Bronx nel 1977, tra lotte di bande, sgretolamento del tessuto sociale, locali notturni e tendenze dell’epoca. Luhrmann volutamente rivolge più attenzione all’ambiente piuttosto che ai personaggi, tratteggiando superficialmente questi ultimi pur di riuscire nell’intento ultimo di far vivere il 1977 al pubblico. Sarà anche per questo motivo che i 92 minuti della series premiere sono necessari, e più che mai utili, all’introduzione di tutti i character, Zeke e Shaolin Fantastic in primis.
Luhrmann crea e dirige il pilot come se fosse uno dei suoi film, si prende il suo tempo, dedica molta attenzione alle scenografie e ai costumi, sacrificando il primo approccio empatico tra pubblico e protagonista; come conseguenza di questa scelta nei suoi primi 30 minuti la series premiére appare caotica, frenetica e senza una destinazione. In una continua alternanza di immagini vere del Bronx e di ricostruzioni meticolose degli anni ’70, lo spettatore viene inondato da personaggi e da storyline che difficilmente si possono accostare l’una all’altra: è solo passata la prima mezzora che si comincia ad avere un quadro più nitido della situazione e si può iniziare ad apprezzare The Get Down.

Shaolin:It’s for the get down. You don’t know what the get down is? You’re a natural, and you don’t know who Grandmaster Flash is? […] The Grandmaster pinpoints the get down part. Sometimes the drums only play for ten seconds, and the rest of the record is violins and singing and shit. He won’t play that bullshit, so he plays the same record on two decks. While the get down plays on one, he cues the same part on two. Now, I don’t know how he knows exactly when to do it, but the moment one finishes, bang, he flips the mixer… the beat goes on and on. The beat goes on, the wordsmith can go on.
Zeke: Man, what the fuck is the wordsmith?
Shaolin: The MC. The master of ceremonies.

Da metà episodio in poi il crescendo degli eventi è costante e non accenna a diminuire nonostante i vari salti e le varie storyline che si intrecciano nel corso di una sola notte. Tra le musiche di Les Inferno e il freestyle di The Get Down la potenza scenica orchestrata da Luhrmann raggiunge il suo apice, un apice che permette di dimenticare qualsiasi svista o superficialità iniziale in favore di un’esperienza audio-visiva che non può lasciare fermi i muscoli dello spettatore medio. Che piaccia o meno la disco, che si capisca o no il valore del rap come valvola di sfogo sociale, si deve riconoscere a Luhrmann di essere riuscito nel suo intento iniziale, esattamente dove riesce ad eccellere nei suoi lavori. Negli ambienti del Les Inferno e del The Get Down anche i character si muovono più a loro agio con uno Shaolin che fa da Virgilio a Zeke in entrambi i posti.
Il contrasto con l’inizio della puntata è netto, vuoi per la presentazione leggendaria data a Shaolin Fantastic, vuoi per la caratterizzazione puerile di Ezekiel “Zeke” Figuero e di Mylene Cruz anche a causa della loro età, e l’effetto positivo è roboante. La trama orizzontale di The Get Down infatti viene costruita solo negli ultimi 20 minuti e praticamente solo grazie ad una enorme friendzone:

It’s sad because you are so gifted. You’re so smart and you just mess around with it. Like today in class when you were supposed to stand up and do that poem. You say you want me, but you don’t know what it is that you want. But I do. And even if I was gonna be with somebody, which I’m not, I’m gonna be with a man that has goals and has a plan. Not a kid from the neighborhood. Not a boy. Not you.

The Get Down crea la sua storyline principale utilizzando come punto d’inizio il rifiuto di Zeke a causa della sua immaturità e del suo spreco di talento (minuto 68 di 92), una gigante doccia fredda che però lo porterà (come si vede dalla prima e dall’ultima scena dell’episodio) a diventare un rapper di successo nel 1996, 19 anni dopo. È nei successivi minuti, e per la precisione con la presa di coscienza di se stesso e l’introduzione nel The Get Down, che tutto si anima e si comincia ad intravedere il filone narrativo che Baz Luhrmann ha impiegato ben 10 anni per ideare.

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • Attenzione al dettaglio: dai costumi alle musiche, passando per i colori e la ricostruzione del Bronx
  • The Get Down e Les Inferno
  • Ricostruzione storica
  • Impostazione da film
  • Primi 30 minuti estremamente caotici e dispersivi
  • Difficoltà iniziale nell’empatizzare con i protagonisti a causa di una scarsa caratterizzazione degli stessi

 

The Get Down si presenta inizialmente in maniera convulsa, salvo poi migliorare sensibilmente con l’avanzare del minutaggio. Se la premiére si fosse interrotta al 40° minuto, ovvero all’entrata del Les Inferno, non ci troveremmo a “salvare” l’episodio, bensì a schiaffeggiare Luhrmann per la sua impostazione superficiale. Sono però i restanti 52 minuti che risollevano l’opinione finale di “Where There Is Ruin, There Is Hope For A Treasure” permettendoci di “salvare” la series premiére e al contempo tenerci un attimo stretti nella votazione date le potenzialità si sono intraviste. In fin dei conti è di Baz Luhrmann che si sta parlando, le aspettative sono state ampiamente rispettate. Nel bene e nel male.

 

Where There Is Ruin, There Is Hope For A Treasure 1×01 ND milioni – ND rating

 

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Fondatore di Recenserie sin dalla sua fondazione, si dice che la sua età sia compresa tra i 29 ed i 39 anni. È una figura losca che va in giro con la maschera dei Bloody Beetroots, non crede nella democrazia, odia Instagram, non tollera le virgole fuori posto e adora il prosciutto crudo ed il grana. Spesso vomita quando è ubriaco.

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