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Crisis In Six Scenes 1×02 – Episode 2TEMPO DI LETTURA 5 min

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“Sono come un pesce fuori dall’acqua. I film li faccio da decenni e anche le cose sul palcoscenico, conosco il palco e ho visto milioni di opere. Ma questo… Come si fa a iniziare qualcosa, e concluderlo dopo mezz’ora e poi tornare la prossima volta. Questo non sono io.”

Woody Allen è spesso ironico e sagace e anche questa volta non si smentisce. Lui stesso preventivamente dice: “questo sarà un flop”. Aveva avvisato il pubblico che la tv era una cosa nuova per lui (guarda solo lo sport e non conosce per sua stessa ammissione Mad Men e Breaking Bad) e, se ci pensiamo, già nel titolo l’autore, cinicamente, definisce il uso prodotto, al di là delle scelte narrative e di costruzione, una crisi in sei scene, svalutandolo.
Non c’è dubbio, è stato il weekend di Woody Allen: il suo 47° film, “Café Society”, esce nelle sale italiane (29 settembre) e Crisis In Six Scenes, la sua prima e ultima serie, è stata rilasciata per Amazon. I critici e gli spettatori o lo odiano, definendolo ormai morto, incapace di comprendere la realtà, distante anni luce dal regista delle origini o lo amano, definendolo sempre sulla breccia, capace, nonostante qualche caduta, di rinnovarsi come araba fenice. E’ impossibile quindi non parlare di lui e la stessa sorte tocca alla serie. Solo per citare un articolo, sul “Guardian” Charlie Lyne ha definito Crisis In Six Scenes “goffa, sghemba e piena di pigre massime da una riga”.
Fin da subito la serie, per uno strano gioco artistico, è un film del regista ebreo, nonostante, e qui sta l’incaglio, Allen faccia una serie tv (120 minuti in totale contro i 90-100 di un suo film), forse per questo c’è ancora qualcosa che non convince nell'”Episode 2″.
Crisis In The Scenes è alleniana nelle situazioni (l’ansia sveglia i suoi personaggi nel cuore della notte, sono angosciati) e nei protagonisti. L’entrata in scena della ragazza, finita al telegiornale e ricercata dalla polizia per le sue idee radicali, è un topos narrativo, riproponendo ancora una volta quindi il classico ingresso di un elemento di discontinuità in una famiglia monotona e borghese (anche in “Basta Che Funzioni” la scema Melody irrompe nell’esistenza di Boris rompendo la sua rigidità).
Il personaggio di Syd sembra un suo alter ego e una riproposizione di figure tipo, alle prese con una situazione bizzarra e surreale. Se nel pilot avevamo solo intuito chi lui fosse, nell'”Episode 2″ è ancor più manifesto: si viene a formare la figura di un uomo che sembra un po’ perso a causa della sordità e della smemoratezza (Lenny crede che la donna sia la badante di Syd). Lui è uno scrittore di scarso successo, costretto a lavorare in pubblicità per andare avanti, vorrebbe essere un grande rappresentante della cultura americana, ma è solo un mediocre. E’ un inetto che non vede di buon occhio l’attivismo, anzi ne è terrorizzato; è tutto figlio del cinema del regista ebreo il modo di pensare realistico e preoccupato dello scrittore, quando gli piomba in casa un’attivista. Non crede nella lotta, è spesso, da buon radical-chic, contro il pensiero comune, dice che ci sono altri metodi democratici, ma non vota da sei anni.
Kay dall’altra parte è una donna forte e determinata, un po’ Meryl Streep e un po’ Diane Keaton, complicata e complessata ma ha lei il polso della situazione (la donna per ripagare la sua amica, madre di Lenny, decide che la ospiteranno e non cambia idea). Kay e Syd si scontrano perché lui vorrebbe buttare fuori di casa la ragazza, lei invece appoggia la giovane. Come in uno spettacolo del teatro dell’assurdo le parole si inanellano con la capacità dell’orefice e ironia e paradosso intanto (l’arrivo della polizia o l’entrata in scena di Lenny sonnambula) rompono la monotonia della loro vita.
Come già detto però qualcosa non funziona e probabilmente sta tutto in queste affermazioni: “quest’esperienza non è stata molto diversa da un film. Il modo in cui abbiamo girato” (Joe Mangaro) e “abbiamo girato proprio come in un film. Non era diviso in episodi. Sono stati montati dopo” (Rachel Brosnahan).
Nonostante sia una serie tv, Crisis In Six Scenes non è stata pensata come tale, sembra più che altro un film a episodi. Come già detto Allen non è un estimatore della tv, non ne conosce le caratteristiche e le dinamiche e quindi è evidente che ha riadattato ciò che sapeva in chiave seriale (al di là della “leggenda”/provocazione intorno al fatto che abbia realizzato questo prodotto solo per danaro). Per comprendere quanto detto, basti pensare ai cliffhanger “lievi” che non tengono alta la tensione, lavorando sulla suspense, ma sono semplicemente un nodo narrativo per collegare un episodio all’altro. Il pilot finisce con Syd e la moglie stessi sul letto che sentono dei rumori provenienti dal pieno terra; l'”Episode 2″ inizia con lo stesso letto e gli stessi due personaggi che ancora si chiedono cosa fare se scendere a vedere o continuare a dormire.

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • La presentazione di Lenny
  • Lo scontro tra Syd e Kay riguardo alla ragazza
  • L’arrivo della polizia
  • La sonnambula Lenny e i poliziotti
  • Una riproposizione, in chiave cinematografica, del teatro dell’assurdo
  • In alcuni momenti la narrazione sembra annacquata
  • I dialoghi sono in alcuni momenti troppo lenti

 

“Episode 2” fa un passo in più rispetto all’episodio precedente, movimentando la storia. Sembra però che Crisis In Six Scenes stia andando avanti con il freno a mano tirato.

 

Episode 1 1×01 ND milioni – ND rating
Episode 2 1×02 ND milioni – ND rating

 

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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.

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