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American Horror Story: Roanoke 6×10 – Chapter 10TEMPO DI LETTURA 6 min

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Arriva alla conclusione una delle stagioni più anomale di AHS, seguendo fino in fondo la natura cangiante della narrazione che l’ha caratterizzata.
Questo episodio infatti cambia di nuovo prospettiva, portandoci ancora nel mondo reale fuori dalla colonia di Roanoke, quello che in qualche modo è riuscito a vedere in diretta streaming la strage avvenuta durante quella che sarebbe stato il seguito di Return to Roanoke: “Roanoke: Three Days in Hell”.
Nel prologo dell’episodio si ha l’opportunità di vedere tutto il cast al panel dedicato durante una fittizia convention dopo la fine della prima stagione, lasciando la possibilità di intravedere i prodromi di alcuni comportamenti che esploderanno durante le riprese della seconda stagione. E’ interessante vedere quindi come venga ulteriormente estesa la disamina metatestuale, vera grande intuizione di questa stagione: la labile separazione tra spettacolo e vita reale che una società multimediale vive costantemente nel proprio quotidiano.
Dopo questo prologo utile a dare un’altra prospettiva sul successo derivato da uno show di successo, segue la narrazione del processo e dell’assoluzione dell’unica sopravvissuta della strage: Lee Harris.
La parabola di Lee lungo tutta la serie mette in luce l’altra tematica fondamentale di questa stagione, resa esemplare proprio nell’evoluzione del rapporto tra lei, madre, e sua figlia Flora: la costante necessità di cercare di essere perfetti nel proprio operato soprattutto agli occhi del mondo, visto come giudice implacabile della propria moralità, sempre pronto a decretare il successo o la rovina di chiunque si affidi ad esso. Nel caso specifico, i continui tentativi di Lee di essere un genitore perfetto, sempre pronto a fare il meglio per i figli, destinati a fallire se non si accetta la propria natura umana, imperfetta per definizione. Molte delle mosse di Lee (come anche degli altri personaggi) finora si sono sempre basate sull’ottenere il consenso esterno, pubblico o società a seconda dei casi, trasferendo in qualche modo ad essi, veri depositori del cosa è giusto, le responsabilità derivanti dalle proprie azioni, soprattutto quelle più controverse o riprovevoli.
E’ chiara quindi la critica di fondo portata avanti lungo tutta la stagione: quella ad una società che si erge a giudice e boia di qualsiasi azione spettante all’individuo, oggi ancora più estremizzato poiché schizofreneticamente volubile, grazie ad una tecnologia che permette di assistere dal vivo a qualsiasi evento, modificando la percezione che si ha di esso nel giro di una cambio frenetico di inquadratura. Azioni prese in preda alle emozioni del momento vengono giudicate in diretta televisiva attraverso like o visualizzazioni, dove gli stessi “attori” non rinunciano a parlare e a giustificarsi verso la telecamera nonostante stiano rischiando la vita in show senza senso, in nome di una presunta realtà che di reale ha solo la morte.
A differenza degli altri personaggi (ormai tutti morti) quello che tiene in vita Lee è proprio l’amore per sua figlia. L’unica cosa vera rimasta in tutto lo show.
Lee, come gli altri, inizialmente lo usa come arma di difesa durante il processo, creando però una frattura nel loro rapporto che difficilmente può essere rimarginata. L’amore, quindi, usato per scopi egoistici, strumento con cui possiamo piegare gli altri al proprio volere, non sapendo che poi in qualche modo questo si ritorcerà contro.
Rendendosi conto dell’errore commesso vedendo sua figlia rinunciare alla propria vita per proteggere Priscilla, arriva a sacrificarsi al suo posto, liberando Flora e lasciandola vivere la sua vita fuori dall’inferno di Roanoke.
Emblematico che il pubblico non assista a questa scena/scelta. Niente telecamere a filmare il gesto più autentico fatto senza nessuna dietrologia e frutto di una scelta responsabile ed individuale compiuta da un essere umano che potrebbe essere chiunque, solo di fronte a se stesso.
Allora anche la colonia di Roanoke dovrebbe andare quindi a simboleggiare quella zona inviolabile dell’intimità del proprio essere che non dovrebbe mai essere violata e svenduta all’esterno, in nome del consenso e della visibilità.
Dovrebbe perché rimane una delle parti della stagione poco chiarita, forse volutamente, andando a recuperare quell’aspetto basilare dell’horror che nasce dalla paura dell’ignoto e dell’incomprensibile, più volte mancato nelle passate stagioni.
Fa un immenso piacere vedere il grande ritorno di Lana Winters, posto al centro del minutaggio dell’episodio, che risulta molto ben giustificato, andando a pescare nella mitologia interna della serie, stavolta in maniera coerente e sensata.
Non è un caso che anche in Asylum Lana avesse sfruttato le sue disavventure per avere successo e venendo così condizionata, mediante questa scelta, la sua vita passata (il ritiro dalle scene dopo una serie di successi e lutti) oltre che quella attuale (nei suoi show si rischia sempre di venire uccisi, almeno chi lavora con lei).
Anche la mancanza della sempre splendida sigla iniziale potrebbe rientrare nella dichiarazione di intenti e quindi nel tema di questa stagione: in passato la sigla è stata usata anche come specchietto per le allodole, generando grandi aspettative ma spesso nascondendo la pochezza di certe trame. Dietro le belle immagini, poca sostanza e coerenza, richiamando in questo caso un confrontro tra il grande hype generato da Sidney per la rappresentazione della realtà con “Return to Roanoke” e “Three Days in Hell” e l’assoluta pochezza delle persone (attori e non) che vi si muovono come semplici burattini del pubblico, piegati solo alle logiche del successo e quindi del grande demone contemporaneo: il consenso degli altri.
Dovendo dare un giudizio a questa stagione, si può dire che l’esperimento di cambiare approccio nella narrazione, rinunciando agli eccessivi barocchismi, possa dirsi riuscito. E’ innegabile che nei primi episodi sia mancato un appeal che avrebbe permesso maggior empatia coi personaggi (storia horror abbastanza banale). Comunque, il ribaltamento di fronte a metà stagione ha fortunatamente riportato in carreggiata lo spettatore che, nonostante sia già fortemente smaliziato nei confronti dell’utilizzo della metanarrazione anche in altre serie e contesti, riesce comunque a seguire con interesse fino a questo episodio finale.
Infatti i multeplici giochi metatestuali utilizzati, da semplice esercizio virtuoso, hanno offerto nuove prospettive e spunti di riflessione, riconfermando come AHS sia una serie da tenere d’occhio per avere un quadro aggiornato su dove sia arrivata oggi la narrazione televisiva e non solo.
Grande plauso al parco attoriale, sempre di primo livello, dove ormai la fa da padrona una Sarah Paulson sempre perfetta per ogni parte che viene chiamata a ricoprire.
Divertente, infine, anche l’appena accennato parallelismo con l’altra creatura antologica di Murphy e soci: American Crime Stories. Qui rispolverata nelle fasi processuali e nell’intervista di Lana a Lee.
Mai dimenticare che il dolore è uno spettacolo succulento da mostrare.

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • Il ritorno di Lana
  • Un epilogo che chiude coerentemente quanto mostrato
  • Ancora interessanti cambi di prospettiva, in linea con una stagione piena di significati
  • La colonia rimasta sostanzialmente non perfettamente a fuoco
  • La sigla, deve tornare perchè crea dipendenza

 

Terza classificata nella personale lista delle stagione finora trasmesse, AHS: Roanoke dimostra che la creatura di Murphy e soci può ancora graffiare. La storia proposta è valida e appassionate, nonché molto più coerente che in passato. Peccato aver perso anche quell’aspetto barocco e glamour, sua altra cifra stilistica.

 

Chapter 9 6×09 2.43 milioni – 1.3 rating
Chapter 10 6×10 2.45 milioni – 1.3 rating

 

 

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Dopo miliardi di ore passate a vedere cartoni giapponesi e altra robaccia pop anni ’80 americana, la folgorazione arriva con la visione di Twin Peaks. Da allora nulla è stato più lo stesso. La serialità è entrata nella sua vita e, complici anche i supereroi con le loro trame infinite, ora vive solo per assecondare le sue droghe. Per compensare prova a fare l’ingegnere ma è evidentemente un'illusione. Sogna un giorno di produrre, o magari scrivere, qualche serie, per qualche disperata tv via cavo o canale streaming. Segue qualsiasi cosa scriva Sorkin o Kelley ma, per non essere troppo snob, non si nega qualche guilty pleasure ogni tanto.

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