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Homeland 6×12 – America FirstTEMPO DI LETTURA 6 min

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In questi sei anni di programmazione, Homeland ha subìto colpi che per altre serie sarebbero risultati fatali, uscendone sempre (o quasi) a testa alta e comunque garantendo al suo pubblico uno spettacolo certamente altalenante dal punto di vista del coinvolgimento spettatoriale ma mai banale o scontato a livello tematico. Nonostante le molteplici battute d’arresto – a partire dall’inaspettata dipartita di Brody – lo show ha da sempre cercato modi diversi per reinventarsi, conservando comunque un certo equilibrio stilistico e concettuale. Equilibrio conservato magistralmente soprattutto grazie all’intelligenza mostrata dagli autori nella trattazione di argomenti fortemente d’attualità, in grado di generare un acceso dibattito critico che spesso finisce per valicare i confini della tradizionale analisi del mero contenuto televisivo.
Tra i pregi riscontrati in questa 6° stagione possiamo certamente menzionare la compattezza e la fluidità dal punto di vista prettamente narrativo. A prescindere dal vostro grado di incredulità dinnanzi ad eventi fortemente scontati quali la dipartita di Quinn o la reclusione di Dar Adal – nulla più che naturali conclusioni di due storyline che, oggettivamente, non avrebbero ammesso altri esiti – l’intreccio stagionale risulta oltremodo scorrevole, caratteristica che ha permesso di approfondire con una discreta organicità tutte le side-story gravitanti attorno al nucleo centrale del racconto, rappresentato, come sempre, dalle vicende personali e lavorative della drone queen.
L’ottima gestione dell’ordito narrativo, curato in particolar modo dal punto di vista dell’interconnessione tra storyline principale e sottotrame che vi gravitano attorno, ha favorito inoltre la creazione di uno scenario fanta-geopolitico del tutto credibile e fortemente malleabile in vista delle due stagioni future, secondo e terzo capitolo di una trilogia iniziata proprio con questa sesta annata nonché ultimo atto della serie targata Showtime.
Il lato oscuro delle agenzie di intelligence si scontra dunque con il desiderio di rinnovamento di un presidente che vuole attuare una politica di governo in forte contrasto con i metodi finora utilizzati. Elizabeth Keane, lato (eccessivamente) buono del potere, da una parte, e Dar Adal, cospirazionista seriale e campione di viscidume dall’altra, danno origine alla più classica delle lotte tra bene e male, tra utopia e distopia, “schierati” dagli autori agli opposti di una scacchiera che li vede inamovibili, fermi nelle loro convinzioni, sovrani arroccati dietro una schiera di pedoni resi ciechi da un sistema che si erge su falsa propaganda, manipolazione dell’informazione e repressione del dissenso.
È proprio a partire dall’accettazione di questo scenario che risulta difficile accogliere con sorpresa la reclusione di Dar Adal e la conseguente inversione di rotta della Keane, comprensibilmente segnata dagli eventi accaduti prima del salto temporale e intenzionata a reagire usando il pugno di ferro per portare avanti le sue convinzioni secondo la classica giustificazione del fine che giustifica i mezzi. Quella visione apparentemente distante dalla Cosa politica, a tratti ingenua, finisce per spegnersi esattamente come si è spento il tentativo di golpe messo in atto da Dar Adal, lasciando spazio a una nuova visione d’insieme, più marcatamente disillusa, che prevede la possibilità di un azzeramento dell’establishment, tra arresti e allontanamenti su vari livelli.
Ancora più scontata è la fine di Quinn, questa settimana costretto ad abbandonare la sua natura di Immortale per salvare Carrie ed Elizabeth, rappresentazione simbolica delle motivazioni alla base delle azioni da lui compiute in questa sesta stagione: il forte legame con una donna che, a discapito di tutto, non lo ha mai abbandonato, e la dedizione nei confronti di una figura, il Presidente degli Stati Uniti, che rappresenta invece la dedizione all’unico lavoro per cui si sentisse realmente tagliato. Fine che però appare, almeno dal punto di vista prettamente visivo, estremamente ingloriosa, e che si configura inoltre come l’ennesima scortesia nei confronti di un character già stuprato negli anni da una lunga sequenza di dubbie decisioni autoriali e che quindi risulta, in ultima analisi, emotivamente debole agli occhi dello spettatore. Apprezzabile la scelta di non regalare un lieto fine al personaggio interpretato da Rupert Friend – a cui tra l’altro va riconosciuto il merito di aver tenuto alto il livello d’interesse quando la stagione stava sguazzando nell’anonimia – meno apprezzabile l’esecuzione.
Discorso diverso può essere fatto per altre conclusioni stagionali, una su tutte quella riguardante il rapporto tra Saul e Dar Adal, magistralmente rappresentata attraverso quel confronto breve ma intenso all’interno del carcere dove è rinchiuso l’ex direttore operativo della CIA. Un incontro che rivela l’attaccamento di Saul, non soltanto dal punto di vista lavorativo, nei confronti di un uomo che, nonostante l’entità delle sue azioni, ha sempre cercato di proteggere il suo paese, partendo però da una concezione del proprio ruolo che lo ha sempre portato a considerarsi al di sopra di qualsiasi diritto personale – “You remember what Graham Greene said […] the Secret services, that they’re the only real measure of a nation’s political health. The one true expression of its subconscious.” – convinzione che lo ha reso, di fatto, il più grande nemico di se stesso. I dubbi esposti in merito al presidente, originati da un sincero timore di Dar Adal nei confronti della Keane – “There’s something off about her, the President I mean. […] There’s something dogmatic and dangerous, something distinctly un-american.” – insieme all’ultimo frame che la vede protagonista in questo episodio, risultano essere inoltre i due trigger che spingono lo spettatore a provare impazienza circa la realizzazione della stagione successiva, sensazione difficilmente percepita da qualcuno negli ultimi season finale andati in onda e valore aggiunto di una serie che, a prescindere da qualsiasi critica dal punto di vista formale, è da sempre maestra nell’utilizzo della finzione per creare spunti di riflessione su domande che noi tutti, ogni giorno, siamo portati a farci di fronte a giornali e notiziari.

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • Ottima gestione dello scenario fantapolitico
  • L’incontro tra Saul e Dar Adal in carcere
  • Equilibrio tra trama principale e sottotrame
  • Una nuova Elizabeth Keane
  • Fine ingloriosa di Quinn
  • Finale come al solito molto lento
  • Alcuni esiti scontati
  • Carrie che piange sempre

 

Negli ultimi anni Homeland ha sempre “toppato” nel finale, regalando episodi letteralmente divisi in due parti: sostanzialmente una prima parte di chiusura ricca d’azione e meritevole d’interesse e una seconda contraddistinta da ritmi lenti e riconducibile alla necessità di avviare una fase preparatoria in attesa della stagione seguente. “America First” non è da meno. La qualità tecnica del prodotto è come al solito indiscutibile, stesso discorso per la gestione dello scenario fantapolitico. Purtroppo però, al pari dei pregi, Homeland continua a portarsi dietro gli stessi difetti, regalando momenti infiniti di stasi narrativa slegati dal contesto e spesso legati a trame con poco mordente. Speriamo che l’abbandono del carattere quasi antologico connaturato alle stagioni del post-Brody possa portare a una degna conclusione della serie.

 

R Is For Romeo 6×11 1.34 milioni – 0.4 rating
America First 6×12 1.89 milioni – 0.6 rating
 

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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.

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