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The Get Down 1×11 – Only From Exile Can We ComeTEMPO DI LETTURA 6 min

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La scelta di Netflix è chiara: stupire, osare, scuotere il pubblico, esplorare nuovi mondi o vederli sotto una luce diversa. Netflix lo fa sempre e lo ha fatto sicuramente anche con The Get Down. Lo show, creato da Baz Luhrmann e Stephen Adly Guirgis, percorre una strada cara al network: raccontare una storia convenzionale con uno stile non convenzionale.
Al centro ci sono sentimenti quasi shakespeariani – non a caso Luhrmann ha realizzato una versione pop e caleidoscopica di Giulietta e Romeo -, l’amore e la difficoltà di viverlo, il coraggio e la rinuncia e così via, ma tutte queste emozioni/situazioni vengono ricodificate in salsa rap, immergendole in una danza sfrenata, in un fantasmagorico dipinto.
Un gruppo di amici, uniti da una stessa passione, la musica, un rapporto complicato e infinito, quello tra Zeke e Mylene. Paure e voglia di cambiare. “Una vita vissuta nella paura è una vita vissuta a metà”: questo è lo spirito della casa di produzione di Luhrmann e questo è uno dei principi che muove anche i protagonisti di The Get Down. Cosa racconta questa seconda parte? Quali sono le analogie e le differenze tra la prima e la seconda stagione? La storia è sempre la stessa, ma la novità che aveva rappresentato la prima parte non è presente in questa seconda.
Fin dal primo episodio emerge forte l’idea che qualcosa non torni, che qualcosa si sia inceppato nel meccanismo narrativo e stilistico di questi nuovi cinque. Lungo le puntate monta la sensazione che si cerchi di allungare il brodo.
Se risultano riuscitissime le scene corali – infatti la voglia di ballare, di muoversi, di tenere il tempo è forte -, risultano meno a fuoco le lungaggini che non fanno bene alla serie in sé. Se riesce alla perfezione il racconto della storia tra Zeke e Mylene, annoiano tutte le vicissitudini di Shaolin Fantastic, al limite tra la criminalità e l’emancipazione da essa, incarnata da Fat Annie. Se è sempre vincente l’idea dello “spectacular spectacular” (le scene di ballo sono sempre le migliori), lo è meno quella dell’animazione che riguarda le avventure della band, strettamente legato a uno dei personaggi più complessi della serie, Dizzee.
“Only From Exile Can We Come” porta con sé tutti i pregi di questa seconda parte, l’uso della musica, i personaggi, ma anche tutte le fragilità, prima fra tutte l’assenza di Luhrmann alla regia, la coazione a ripetere (situazioni si ripetono) e un episodio troppo lungo.

I’m talking about Star Wars. If you wanna get out of this contract and free Shaolin from Darth Annie and protect the get down from her novelty record death laser. We are gonna need a rebel alliance.
This ain’t a novelty. It’s a nation.”


E’ molto interessante ad esempio l’insistito parallelismo tra il gruppo dei The Get Down Brothers e la saga Star Wars: i ragazzi chiedono aiuto a tutto il Bronx e in particolare a Afrika Bambaataa e alla sua Zulu Nation (“This is an organization of individuals in search of success, peace, knowledge, wisdom, understanding and the righteus way of life”). The Get Down Brothers, nella scena dello spettacolo, urlano il desiderio di cambiare questo mondo – addirittura Cadillac, alla fine, sembra essere cambiato -, desiderosi di uguaglianza, rispetto, amore e comprensione, con la speranza di fare dell’arte il proprio mestiere. Forse speranza vana per chi abita in un mondo fatto di soprusi e pregiudizi.
Mentre Cadillac è pieno di invidia e rancore, vendetta e odio, gli altri sono pieni di passione e desiderio di diventare qualcuno. L’unione di tutti questi ragazzi crea un’energia positiva, un flusso potente – si veda l’ispirazione a Star Wars -; Afrika Bambata dice ai giovani: “the get down come from all nationalities, all races, from all over this planet. The get down ain’t got no prejudige”, e immerge così i suoi giovani amici di e in un’atmosfera quasi new age, in cui l’Unione e la fratellanza vincono su tutto. Sono gli Jedi della musica che fanno fluire il campo energetico della verità per uno scopo condiviso, l’Unità. Tale stato di cose è ancor più evidente durante lo spettacolo in cui potrebbe succedere l’irreparabile (Cadillac e i suoi scagnozzi) e invece The Get Down Brothers e Zulu Nation fanno muro e si muovono come un corpo solo, unico.

“And the music? It’s our Fource.”

Un’unica forza, un’unica marea. E’ questa la spinta che coinvolge lo spettatore, ma poi cade miseramente nelle inutili e stancanti parti in cui i corpi veri dei personaggi si fanno fumetti per mano e per bocca (nel racconto) di Dizzee/l’Alieno – personaggio interessante che dal canto suo intriga perché mostra e non mostra, dice e non dice (molto bella la scena in cui l’Alieno e il suo amico giocano con i colori).

“I’ll see you on the other side.”

Ancora la musica sostiene e muove i suoi personaggi: Mylene ha amato le sette note, si è ribellata in nome di queste e per loro ha perso la sua famiglia (il suicidio del padre). La canzone che canterà fa da contrappunto alla triste morte del padre (al suo funerale) – una delle figure più terribili della serie, uomo di Chiesa pieno di ombre -, e all’amore fortissimo tra l’usignolo e Zeke (dice alla sua ragazza: “Mylene, you my queen, you my butterscotch queen, and my gonna see on the other side”). Se la ragazza capisce i suoi errori (“I lied to everyone including you, Jackie. […] I betrayed you when I did that slutty act at Roby Con and I’m not even a real church girl. I’m full of shit. I’m not good.”) e riesce a raggiungere, in un modo o nell’altro ciò che vuole, lui è costretto a dimenticare il suo sogno, fare un passo indietro, costretto a “ripiegare” sul piano B (l’ammissione all’Università). Se Mylene appare cambiata, mostrata come una donna cresciuta, pronta anche a ricattare (il suo contratto di lavoro), Zeke invece rappresenta il personaggio positivo per antonomasia: non ama i compromessi, non accetta le bugie (rinfaccia a Shaolin di aver fatto diventare suo “fratello” uno spacciatore e di avergli mentito), è un puro che non vuole macchiarsi se non per proteggere gli altri. Si dispera, promette, urla tutto il suo amore, in tipico stile Luhrmann, e poi, dopo aver fatto ciò, torna dai suoi “fratelli” perché, appunto, ci tiene alle promesse.
I personaggi in questi 11 episodi (tra parte uno e parte due) hanno fatto un percorso, ma è come se, nonostante i tanti avvenimenti, tutto, paradossalmente, fosse fermo al punto di partenza. Tra dolori, sofferenze, sbagli, tradimenti, vendette, ciascuno è pronto a iniziare un altro capitolo della vita: in cella (Boo-Boo), votata all’arte, alla costruzione della propria educazione, o costretto a combattere le stesse guerre di sempre (Shaolin, Dizzee). Tutti cambiati e forse tutti uguali a prima, in bilico tra il “chissà” (la partenza di Mylene) e una notizia che forse stravolgerà la vita (l’Università). Incombe un futuro incerto ma non privo di speranza (You cannot imagine what we’ll become).

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • Zeke
  • Mylene e il suo percorso
  • La storyline di Dizze
  • La musica, elemento fondamentale nella storia
  • Il concetto di Unione, il gruppo
  • Episodio fin troppo lungo
  • Lungaggini di diverso tipo

 

Questa seconda parte non convince a pieno, sempre a metà tra il capolavoro (il finale dell’episodio) e la mediocrità.

 

Gamble Everything 1×10 ND milioni – ND rating
Only From Exile Can We Come 1×11 ND milioni – ND rating

 

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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.

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