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American Horror Story: Cult 7×08 – Winter Of Our DiscontentTEMPO DI LETTURA 5 min

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“Now is the winter of our discontent/
made glorious summer by the sun (o son) of York.”

 

Con queste parole si apre “Riccardo III” di William Shakespeare, ultima opera di una tetralogia sulla storia inglese che inizia con “Enrico VI: Parte I” e che termina con la tragedia del sovrano. Il regnante è malvagio e subdolo e riesce ad irretire le “vittime” grazie al suo malefico carisma; seduce anche con la sua malformazione fisica che adduce a giustificazione della perfidia. Shakespeare discorsivizza uno stato di cose da lui ben conosciuto, mette in scena un passato noto ai più – che però vede in quella seconda battuta una rinascita (la sconfitta finale di Riccardo). Tale battuta è diventata talmente famosa da diventare titolo dell’ultimo libro scritto da Steinbeck, “L’inverno del nostro scontento” in cui però non c’è nessuno sole pronto a brillare, anzi, c’è un buio profondo e dolente.
L’ottavo episodio di American Horror Story: Cult, “Winter Of Our Discontent”, cita il famoso verso shakespeariano, mostrando il buio della nostra epoca, il disagio dell’uomo contemporaneo e non vede ancora “l’estate gloriosa”. Siamo nel più profondo inferno (calato sull’intera umanità dopo l’elezioni di Trump); come nella tragedia il fulcro è Riccardo, demiurgo che tira le fila mozzando teste e uccidendo nemici, qui è Kai, fustigatore e moralizzatore con una progettualità folle e sanguinaria, a farlo. Se il sovrano è plasmato “da rozzi stampi”, “deforme, monco”, Kai è una specie di fata turchina tiranna e assassina, non difetta nel fisico e splende di bagliori luciferini, quasi materializzazione del suo vulnus. Nel corso degli episodi, infatti, grazie a vari flashback la sua vita – in questo caso attraverso le parole della sorella Winter – viene raccontata, senza troppe chiusure o censure dimostrando che in lui è labilissima la linea tra vittima e carnefice, resa ancor più tragica dalla follia che lo anima.
Winter torna indietro a quella volta in cui il fratello le ha salvato la vita, ricorda di quando sono stati in quella casa degli orrori cristiana, dove un crudele santone punisce i peccatori, una sorta di Seven seriale. Le parole del santone implorano un Potere più alto e vengono plasmate per “salvare” l’umanità. Come in un lunapark ordito e ordinato da una mente perversa, donne che vogliono abortire, tossicodipendenti, sodomiti pagano per le loro colpe in maniera esemplare. E qui, in questo inferno, Kai salva la sorella mettendo in scena un perfido “do ut des” che fa di Winter una vittima designata, tragicamente in perenne debito. La donna è l’anello debole di questa catena, indecisa sul da farsi, legata dall’amore e dalla fascinazione verso il fratello (il dialogo fra lei, Beverly e Ivy ne è la prova) ma anche spaventata e disgustata da quel mostro che le propone di avere il figlio del Messia – è tragica la scena che ricorda molto il rito di “The Handmaid’s Tale” in cui la donna è pronta all’amplesso – in bilico tra due fazioni, quella delle donne (riecheggia lo scorso episodio) e quella degli uomini (simbolo dello scontro tra Donald Trump e Hillary Clinton) e Winter sembra non voler prendere posizione, o meglio si sposta da una parte e all’altra della barricata. In American Horror Story c’è ancora una volta lo scontro uomo-donne inteso come dissidio fra dominatore e dominate; infatti nell’incipit Beverly e Ivy sono costrette a servire gli uomini di Kai, riproponendo uno schema antico come il mondo.
Collante di questi due schieramenti è Winter, nomen omen, come già detto ponte vacillante, che ha in sé lo scontento del titolo: teme Kai, in grado di chiederle le cose più inconcepibili, di fare le cose più crudeli (l’omicidio del loro fratello, a sangue freddo solo per la sua insubordinazione), di soggiogare fino allo spasimo chi soggiogato è già. La ragazza è una leader potenziale, dovrebbe ribellarsi al tiranno ma non ce la fa, non può lasciare le sue sorelle di cui capisce le idee, scappa da lui ma gli mente, sembra sodale di Beverly, insofferente al capo, ma poi non esita a metterla in pericolo (incolpa lei della morte di Jack Samuels).
Kai dimostra di avere un altro punto in comune con il sovrano shakespeariano, il linguaggio. Come per Riccardo anche per Kai esso è uno strumento di potere e controllo. Il ragazzo confonde chi ha davanti usandone fragilità, tormenti, paure, per fare di lui ciò che vuole, ha in pugno tutti i suoi adepti e non esita ad eliminare chi mette in discussione la sua autorità (il fratello che, resosi conto dei suoi errori, è pronto ad aiutare Ally a riavere il figlio). Calcando le orme del personaggio tragico, anche la “fata turchina” è capace di manovrare gli altri a suo piacimento (Jack Samuels, emblema di una mascolinità stereotipata, è detective di cui tutti si fidano, è un uomo affascinante e virile, le donne lo desiderano ma egli è il contrario di ciò che appare), ottiene ciò che vuole (l’esecuzione di suo fratello), gioca con chi gli sta accanto (Winter) e riesce ad ampliare la sua “corte” (l’entrata nel “gruppo” di Ally è un inquietante colpo di scena). Kai ha uno strapotere spaventoso, è un leader spietato e folle ma la sensazione è che dopo la sua elezione a membro del consiglio qualcosa nella sua leadership si sia incrinato. C’è la percezione, giocata sull’ambiguità dei personaggi, sui tradimenti e sui cambi di rotta, che il “tu quoque Brute” sia pronto ad uscire dalla bocca del “Re”.

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • La scena della casa degli orrori
  • Il finale dell’episodio
  • I tradimenti e i cambi di rotta
  • Il titolo
  • Troppe storyline
  • Ritmo fin troppo lento

 

“Winter Of Our Discontent” è un importante episodio nell’economia dello show che però non convince in tutto e per tutto: ricco di citazioni, cade proprio a causa della sua stessa costruzione, le storyline si intrecciano, le relazioni si rompono e si riannodano, i misteri si svelano e i colpi di scena inimmaginabili imperversano. E’ come se per lo spettatore non ci fosse mai pace, sballottato da una parte all’altra, da una barricata all’altra, senza sapere di chi si può fidare e di chi deve diffidare. L’episodio otto fa da spartiacque mettendo in chiaro che nulla sarà più lo stesso, che gli sconvolgimenti sono dietro l’angolo (che fine farà Beverly? Quali saranno le vere intenzioni di Ally? Cosa farà Winter?) e che il mare di American Horror Story è ancora molto agitato.

 

Valerie Solanas Died For Your Sins, Scumbag 7×07 2.07 milioni – 1.0 rating
Winter Of Our Discontent 7×08 2.06 milioni – 1.0 rating

 

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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.

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