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Mindhunter 1×10 – Episode 10TEMPO DI LETTURA 10 min

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Che sia Mindhunter il vero capolavoro di Netflix? I primi segnali sembrano indicare proprio questo. Tuttavia per rispondere alla domanda non si può far altro che vedere i restanti episodi.[Eros Ferraretto, Mindunter 1×02]

Con questa domanda si concludeva la nostra recensione relativa al secondo episodio della serie ideata da Joe Penhall. Ora, terminato il binge watch, a questa domanda si può cercare di trovare una risposta. Tuttavia, la risposta è da trovare in modo imparziale e non schierandosi come fan né dal lato della critica spietata (relativamente la cruente narrazione dei killer), né dal lato dei più soggiogabili tifosi di Fincher. La verità, come si dice alle volte, sta nel mezzo.
Il termine “capolavoro” relativamente ad un’opera cinematografica o seriale ha perso di significato negli ultimi anni dal momento che viene sempre accostato a prodotti che riescono a convincere anche solo per una stagione (o, per un film, per uno scorcio dello stesso), dimenticandosi quindi che la narrazione conta sì, ma deve rappresentare una coerenza continua con il percorso che l’opera vuole far percorrere al proprio pubblico. Netflix con i propri prodotti, al momento, si trova distante dai risultati ottenuti da altre piattaforme e canali nonostante il portafoglio di serie possa contare su gioielli di tutto rispetto: il recente Ozark, il complesso The OA, la serie degli anni ’80 Stranger Things ed il precursore House Of Cards. Mindhunter si unisce alle serie precedentemente elencate, non riuscendo a spiccare dalle stesse con quel salto di qualità che si poteva attendere (e sperare) dato il prepotente incipit.
Trovata risposta al quesito relativo alla natura di capolavoro di Mindhunter, ora c’è da chiedersi il perché la serie non si possa ritenere tale e perché il salto di qualità di cui si faceva menzione poc’anzi non è avvenuto. In virtù di ciò, va analizzata nella maniera più completa l’opera di Fincher, dal momento che la recensione verte sicuramente sull’ultimo episodio, ma trattandosi di un season finale è d’uopo ripercorrere brevemente il percorso dell’ennesimo prodotto di qualità di casa Netflix.

I serial killer


La raffigurazione e traslazione all’interno della serie dei serial killer è l’emblema dell’egregio lavoro che si nasconde dietro Mindhunter. E non si nasconde nemmeno troppo bene dal momento che rappresenta uno (se non IL) dei punti di forza sui quali poter contare in maniera più pregnante per l’intero durare della stagione. Monte Ralph Russell, Benjamin Barnwright, Frank Janderman, Jerry Brudos, Richard Speck, Edmund Kemper e, in quest’ultimo episodio, Darrell Gene Devier: tutti questi complessi individui ed il loro evil side vengono gestiti in maniera sublime durante quegli interrogatori che rappresentano le porzioni di puntate più accattivanti (inquadrature e stacchi di scena) e più psicologicamente devastanti (i complessi dialoghi nei quali Holden si intrattiene).
Nello scorso episodio era stato coniato per la prima volta il termine serial killer da parte di Bill, ma è in questa decima e conclusiva puntata che lo studio sulle scienze comportamentali criminali viene applicato per la prima volta: Darrell Gene Devier è la cavia per mezzo della quale Holden mette in mostra il risultato del lavoro fin lì portato avanti. Ed i risultati sono eclatanti: dopo aver superato il test del poligrafo (risultato “non conclusivo”) il giovane Gene è sprezzante del pericolo e, seguendo il pattern di molti altri casi, è solitamente il killer ad avvicinarsi alla polizia per poterla aiutare nelle indagini. Da qui l’incontro determinante in centrale dove il ragazzo, messo nuovamente di fronte al masso-arma-del-delitto con il quale aveva ucciso una ragazzina di 12 anni, ha una crisi di nervi e crolla inesorabilmente mentre Holden si insinua nella sua mente. Diversamente era avvenuto durante gli interrogatori di Kemper e Brudos, due lati della stessa medaglia. Il primo aveva raccontato entusiasta di quello che aveva fatto, nonostante fosse cosciente del dolore che avesse inflitto compiendo le proprie azioni; il secondo, superati gli iniziali momenti di silenzio, si era lasciato andare a confessioni sia in prima persona, sia in terza (soprattutto), quasi volesse allontanare dalla propria persona delle azioni e dei comportamenti che non riconosceva come propri.
L’incontro con Speck continua anche in questa puntata ad essere al centro della narrazione, per via del nastro incriminante che ricompare nelle mani dell’Ufficio responsabilità professionali.
Holden, tramite quel linguaggio, era riuscito a far breccia in Richard, facendolo parlare. Tuttavia, proprio quella terminologia volgare solleva diversi dubbi relativamente l’indagine: ogni mezzo o parola è concessa nel momento in cui si vuole puntare a chiudere un’indagine (si pensi all’interrogatorio con Devier e le allusioni sessuali) o raccogliere nuove informazioni (Brudos e Peck), oppure ci deve essere un limite insormontabile, una linea di demarcazione chiara e definita tra umano e disumano. Elementi che, in fin dei conti, rappresentano la dicotomia ultima tra i serial killer e la compagine dell’FBI: se questa separazione venisse meno, cosa potrebbe distinguere Bene da Male?
Nietzsche in Beyond Good and Evil  scrisse: “He who fights with monsters should look to it that he himself does not become a monster. And if you gaze long into an abyss, the abyss also gazes into you.” Ed è proprio attorno a questo rischio che il personaggio di Holden è stato costruito, facendo supporre che la sua gelosia verso Debbie ed il suo modo di comportarsi non fosse frutto di una normale consuetudine, ma di un assorbimento comportamentale rispetto ai soggetti che durante le sue indagini interrogava.

None of us are saints.[Albert Fish]

Squadra di scienze comportamentali e relazioni umane


Tuttavia, messa da parte questa fedele trasposizione per quanto riguarda i serial killer, Mindhunter fallisce una volta oltrepassata la porta di uscita della sala interrogatori. Holden, Bill e Wendy sono personaggi quanto mai caricaturali e sommariamente approfonditi, questo nonostante siano a tutti gli effetti i veri protagonisti (con le proprie paturnie mentali) della serie stessa. Ma andiamo con ordine.
Holden cozza con la frase critica precedente in quanto il personaggio è ampiamente descritto all’interno della serie. Fatto inoppugnabile. Ma è la sua gestione della relazione con Debbie a far storcere il naso. La colpa, guardando oltre il burattino mosso dai fili, è da imputare anche agli sceneggiatori, incapaci di tenere una precisa linea narrativa per i due perpetui infelici (ex)fidanzati. Nella ottava puntata i due sembravano giunti ad un punto di non ritorno; nella nona si era deciso di farli riavvicinare e riappacificare senza una benché minima spiegazione; ma è in questo decimo capitolo che gli sceneggiatori giocano la carta migliore: li fanno lasciare. Dopo aver fatto tira e molla per due-tre episodi di fila (se si conta lo scontro verbale in conclusione di settima puntata), la diatriba tra i due viene riportata alla situazione iniziale per poi essere nuovamente gettata nel caos. Questo perché si tratta del finale e quindi è giusto lasciarsi la porta aperta a varie possibilità, che rappresenti una scelta utile per gettare in confusione lo spettatore? Altamente probabile. Ma resta una decisione quanto meno discutibile questo continuo sali-scendi amoroso.
Di Bill è stata mostrata la parentesi forse più dolce e amorevole della serie stessa. Parentesi chiusa in fretta e furia e mai più riaperta. Il perché non è dato saperlo, ma Bill sembra a tutti gli effetti bloccato a metà nella sua trasformazione da brutto anatroccolo a bellissimo cigno. Non resta che sperare che nella seconda stagione la sua caratterizzazione veda maggiore spazio e sviluppo, questo per poter ampliare lo spettro descrittivo-narrativo della serie che sembra vantarsi della cura ai dettagli ma che inciampa negli sbagli più beceri.
Di Wendy c’è realmente poco da dire dal momento che l’unico sviluppo del suo personaggio coincide con quel fantomatico episodio di circa trenta minuti che rappresenta il punto più basso della stagione. Prima e dopo il nulla più totale, fatta esclusione per il gatto. È sicuramente un personaggio sul quale c’è da lavorare ancora molto, ma rappresenta anche quello più fertile a nuovi sviluppi (anche perché di lei è stato presentato poco o niente, se non che fosse lesbica).
Questa decima puntata rappresenta alla perfezione il prodotto Mindhunter: una gestione sopraffina dell’interrogatorio, dei dialoghi taglienti e mozzafiato, delle inquadrature e delle riprese magistrali, ma dei personaggi principali (dal lato dei good guys) completamente fuori fuoco e abbozzati. La scena tra Debbie ed Holden ha del ridicolo, visto soprattutto i precedenti tra i due.

District Attorney Mayweather:Honey, we don’t kill criminals. They kill themselves.
Wendy:What does that mean?
District Attorney Mayweather: “It’s their behavior that puts them in that chair.”

Progredire dello studio criminal-sociologico, conclusione di puntata e ponte per la prossima stagione


La puntata ha il pregio di far uscire allo scoperto lo studio dell’FBI, mostrato a tutti dall’opinione pubblica che veicola lo studio stesso come fautore della possibile condanna a morte di Devier. Questo potrebbe avere grosse ripercussioni per il lavoro di Holden, Bill e Wendy dal momento che, se tale condanna dovesse aver luogo, nessun serial killer (o presunto tale) vorrà più soffermarsi a discutere relativamente il perché delle proprie azioni con loro. Tuttavia Holden appare galvanizzato dalla notizia, essenzialmente per due motivi.
Per la prima volta riceve veri complimenti da qualcuno: Debbie e Bill sono sempre stati mostrati poco avvezzi alle idee ed al modo di operare di Holden e lui stesso ha percepito il più delle volte queste prese di posizione come un fattore di gelosia, non mettendo in dubbio il proprio operato. Venir elogiato dall’opinione pubblica rappresenta quindi un moto d’orgoglio per lui.
Il secondo motivo oltre al potersi far fregio rispetto a Debbie e Bill, ma collegato allo stesso, è che il suo lavoro riceve credito al di fuori dell’FBI, all’interno della quale periodicamente gli viene fatto notare come la sua condotta cozzi con il metodo investigativo del bureau.
Sconvolto dal fatto di essere rimasto da solo nella propria lotta, abbandonato sia sentimentalmente (Debbie), sia lavorativamente (Bill), Holden in conclusione di puntata cerca rifugio dalla persona da cui tutto è partito e con la quale sente di avere un collegamento disumano ma viscerale: Edmund Kemper. Proprio con big Ed avviene l’ennesimo sopraffino dialogo costruito in Mindhunter dove all’agente dell’FBI viene rammentato quanto sia labile la linea di demarcazione tra lui e le stesse persone che interroga. Fincher gioca anche con gli occhi dello spettatore in questa scena, mostrando un Holden completamente trasandato e lontano dal giovane ed ordinato agente dell’inizio della serie che lo spettatore ricorderà.
Altro elemento che ha contraddistinto il finale, così come l’intera stagione, è stato sicuramente il misterioso personaggio la cui storia non è diegetica con questa prima stagione ma si spera lo sia con la seconda. Piccola curiosità: il losco figuro è presumibilmente Dennis Rader (BTK Strangler), serial killer attivo in Kansas dal 1974 al 1991. Ma questa è solo una curiosità, dal momento che spetta alla squadra di Fincher introdurlo in maniera chiara e definitiva e non sfruttandolo per creare hype incondizionato.

“I didn’t know what made things tick. I didn’t know what made people want to be friends. I didn’t know what made people attractive to one another. I didn’t know what underlay social interactions.” [Ted Bundy]

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • Rappresentazione serial killer
  • Dialoghi ed interrogatori in generale
  • Il cambiamento di Holden
  • Il nastro che ritorna come un boomerang
  • Edmund Kemper, Darrel Gene Russel
  • Cameron Britton/Jonathan Groff
  • Incontro conclusivo tra Edmund ed Holden
  • Relazioni umane
  • Gestione di qualsiasi cosa che esuli dalla stanza degli interrogatori
  • Wendy
  • Debbie ed Holden: diciamo basta a questo scempio
  • BKT Strangler, personaggio di cui sarebbe stata gradita quanto meno un’abbozzata caricaturale

 

Mindhunter rappresenta un gioiello di rara bellezza di casa Netflix, quando a far da padroni della scena sono i serial killer. Nel momento in cui ci si allontana da quel campo, la narrazione sembra crollare come un castello di carte. Speriamo che la seconda stagione riesca a superare questa lapalissiana impasse, ma continuando ad introdurre e rappresentare serial killer di rinomata conoscenza popolare. Noi suggeriamo Ed Gein, Ted Bundy e Charles Manson. Speriamo di essere accontentati.

 

Episode 9 1×09 ND milioni – ND rating
Episode 10 1×10 ND milioni – ND rating

 

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Conosciuto ai più come Aldo Raine detto L'Apache è vincitore del premio Oscar Luigi Scalfaro e più volte candidato al Golden Goal.
Avrebbe potuto cambiare il Mondo. Avrebbe potuto risollevare le sorti dell'umana stirpe. Avrebbe potuto risanare il debito pubblico. Ha preferito unirsi al team di RecenSerie per dar libero sfogo alle sue frustrazioni. L'unico uomo con la licenza polemica.

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