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The Good Fight 3×10 – The One About The End Of The WorldTEMPO DI LETTURA 5 min

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Diane: “Not since Abraham Lincoln has our great country been blessed by a leader of such wisdom and courage. Some say that President Trump is simple, but there is strength in simplicity. Complexity has only led us to joblessness and war. When I think of the immortal words of Jesus Christ… – too much? Yeah. – …When I think of the immortal words of Margaret Thatcher…

In questo panorama seriale sempre più affollato, sembra quasi incredibile come il sodalizio che procede da ormai dieci anni tra la CBS e i coniugi King riesca ancora a realizzare senza sosta prodotti di ricercata raffinatezza. Era il 22 settembre 2009 quando Julianna Margulies vestiva per la primissima volta i panni di Alicia Florrick e da allora poco sembra essere cambiato. A tenere in piedi le stagioni fin qui trasmesse – siano esse tratte da The Good Wife o dall’attuale spin-off poco importa – si può ritrovare un ormai usuale mix di piccoli dettagli (non sarebbe un episodio scritto dai King, senza numerose inquadrature sugli ascensori) a fare da cornice alla semplicità dura e pura. Se davvero ogni tanto sembra che tutto sia già stato scritto e tutto sia già stato visto, The Good Fight, come già prima di lei la serie madre, prova a mettere in scena un prodotto dove a dominare non è tanto l’intreccio (i fatidici “colpi di scena”) quanto una resa della realtà quotidiana che possa essere verosimile e surreale allo stesso tempo, veicolata attraverso le interpretazioni, ma soprattutto nella scrittura dei personaggi che tra le major five americane trova ad oggi pochi rivali.

Lucca: “I think they think Rosalyn would do more for the Reddick/Boseman brand. Well, how am I not the brand?
Marissa: “You’re not… black enough.
Lucca: “Are you fucking kidding me?

Le varie linee narrative aperte durante la terza stagione e che dovevano trovare la loro chiusura in questo episodio finale si sono rivelate a conti fatti delle piacevolissime situazioni di contorno all’affondo principale sulle ipocrisie dell’America contemporanea, che partendo dal caso #metoo legato allo studio legale si è via via sviluppato di episodio in episodio. Ciononostante, quello che potremmo chiamare il caso della Giraffa Judy, tra la stravaganza di un nuovo giudice e i paradossi del Comma-22 spiegato con gli animali disegnati da Jay, riesce a concludere con dignità il percorso sia di personaggi storici che di più recenti. Michael Sheen in neanche dieci episodi è riuscito a restituire un Roland Blum perfettamente sopra le righe, con una foga e un’energia in grado persino di rivitalizzare, soprattutto nella seconda metà di stagione, anche Maia Rindell. La partenza dei due verso Washington sembra porre la parola fine alla loro permanenza nella serie, ma non prima di aver messo in mostra l’uno dei principi antitetici rispetto a quelli di Diane, l’altra invece una sorta di tradimento nei confronti della madrina, rinfacciando allo studio afroamericano quell’ipocrisia di cui si diceva sopra (“You’ve done wrong, look at these cases. In all eight you made more money than your clients. In all eight you had a conflict of interest and yet all the while you were still patting yourself on the back, thinking you were fighting the good fight“).
È proprio il personaggio di Diane però, in questo campo di battaglia dove tutti provano a dimostrare la propria superiorità morale vera o presunta che sia, a muoversi di un passo in avanti. Paradossalmente, mentre Lucca e Rosalyn competono per il posto di socio nominale a colpi di gradazione della pelle, mentre il club del libro tira fuori l’artiglieria pesante, mentre Boseman si difende dalle accuse per come lo studio ha affrontato lo scandalo Reddick (“I won’t be held to account because the firm that I helped to build doesn’t conform to your idea of a black law firm: I’m a black man, Reddick/Boseman&Lockhart is my firm and I apologize for nothing“), Diane si ritrova a scrivere un discorso in onore di Trump per amore del marito, smuovendosi dalle sabbie mobili dell’ideologia. D’altronde è già la citazione biblica da cui la serie prende il titolo a non fermarsi alla semplice affermazione battagliera “I have fought the good fight“, ma procedendo ancora: “I have finished the race, I have kept the faith.
Ecco che, traducendo in termini più laici e consoni allo show, la “fede” diventa molto semplicemente la fiducia che Diane condivide insieme a Kurt prima del cliffhanger finale, la speranza che la porta a chiedere che tutto possa essere per il meglio, ma soprattutto che la porta a guardare in modo diverso (radicalmente diverso se si pensa allo schiaffo riservato ad Alicia Florrick) il desiderio di indipendenza e di idealismo che intravede in Maia, coronando a pieno un’ottima evoluzione del personaggio all’interno dei tempi folli che si ritrova a vivere.

So come and sit here next to me
at the end of the world,
cause we’re the ones
coming to save us.
We’re flawed but
we’re all that we got:
the season is over,
but the story is not.

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • I fulmini globulari (esistono per davvero!)
  • Judy Giraffe
  • Addio Maia
  • L’evoluzione di Diane
  • Swatting finale
  • Michael Sheen 
  • Nulla di particolare

 

Come direbbe Eliot, “This is the way the world ends / Not with a bang but a ball lightining a whimper“. Si chiude con un episodio letteralmente da fine del mondo la terza stagione di The Good Fight. Una stagione talmente surreale da porsi senza mezzi termini e di detrattori per tutta una serie di eccessi (dall’interpretazione di Sheen, fino all’utilizzo dei corti animati) ne troverà sicuramente in abbondanza. Però non in questa recensione, perché, a voler spezzare una lancia in favore di Robert e Michelle King, il loro è semplicemente il tentativo di restituire alla finzione narrativa quell’assurdità satirica di cui la realtà sta cercando di impadronirsi.

 

The One Where The Sun Comes Out 3×09 ND milioni – ND rating
The One About The End Of The World 3×10 ND milioni – ND rating

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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.

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