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Nomadland-recensione
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Nomadland

Recensione di Nomadland, film di Chloé Zhao che introduce lo spettatore nel mondo del nomadismo alla ricerca di una libertà insperata.

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Dopo aver perso il marito e il lavoro durante la Grande recessione, la sessantenne Fern lascia la città aziendale di Empire, Nevada, per attraversare gli Stati Uniti occidentali sul suo furgone, facendo la conoscenza di altre persone che, come lei, hanno deciso o sono stati costretti a vivere una vita da nomadi moderni al di fuori delle convenzioni sociali.

 

Empire, Nevada. A seguito della recessione economico-finanziaria più brutale dalla Grande Depressione (così constatò il Fondo Monetario Internazionale), la locale industria di gesso si ritrovò a dover chiudere a fine gennaio 2011 togliendo di fatto il posto di lavoro a quasi 100 persone. Empire era a tutti gli effetti un villaggio operaio, nato per necessità ed esigenza accanto al dislocamento locale della USG, completamente gestito dall’azienda stessa che manteneva la proprietà anche delle case. La chiusura avvenuta nel 2011 rappresentò, di fatto, la scomparsa della città: i pochi abitanti (207 nel 2010) se ne andarono con il coincidere della fine dell’anno scolastico, rendendo Empire una vera e propria cittadina fantasma sperduta nella zona del Black Rock Desert in Nevada.

IL WORKAMPING


È da questo avvenimento storico che Nomadland, opera scritta, diretta, edita e prodotta da Chloé Zhao decide di iniziare per far luce su di un preciso spaccato della società americana, ossia la pratica del workamping dove un lavoratore (part time o full time) riceve una paga oraria integrata dalla messa a disposizione di un campo attrezzato presso il quale poter sostare con il proprio camper, furgone o simile. Una pratica lavorativa sempre più entrata in circolazione dopo la crisi economica del 2008 a seguito della quale una grossa fetta di popolazione (over 50) si è ritrovata, anche se in pensione, senza più risparmi sui quali poter fare affidamento. Privati di denaro e casa, queste persone hanno deciso di affrontare il problema comprando un camper per girare gli USA in cerca di lavori saltuari, vivere la giornata e cercare di tirare a campare.
A fare massiccio utilizzo di questa nuova categoria di lavoratori è principalmente Amazon che inserisce all’interno delle proprie warehouse queste persone: ad Amazon interessa avere forza lavoro pura e semplice senza alcun interesse di formazione lavorativa e/o di crescita; da questo punto di vista poco interessa al lavoratore visto che l’unica cosa a cui punta è l’elevata paga con cui Amazon retribuisce i workcamping. Un’interessante parentesi sociale già affrontata nel breve documentario di Brett Story e Laura Poitras CamperForce, sempre tratto dal romanzo “Nomadland: Surviving America in the Twenty-First Century” su cui anche il film di Chloé Zhao si basa.
CamperForce e Nomadland, tuttavia, differiscono come costruzione narrativa. Il progetto della Poitras (oltretutto lungo poco più di quindici minuti) è un documentario a tutti gli effetti volto a fare luce su di uno spaccato sociale altrimenti celato ai più; Nomadland, invece, parte dalla narrazione del problema del workamping e delle cittadine operaie per soffermarsi sull’elemento più importante, spesso dato per scontato, di questo contesto: le persone.
Tutto ruota attorno a Frances McDormand che interpreta Fern, una vedova ex abitante di Empire costretta per le motivazioni sopra esposte a fare workamping, a girare gli USA in cerca di lavori saltuari, il tutto potendo fare affidamento solo su di sé e sul suo furgone attrezzato. Certo, in alcuni momenti dell’anno, in Arizona, avvengono i ritrovi organizzati da Bob Wells, ma buona parte dell’anno queste persone (se non si tratta di gruppi) si ritrovano a poter fare affidamento solo su loro stessi, quasi fosse un guanto di sfida che per sbeffeggio lanciano nei confronti di quella società che così li ha ridotti. Un senso di solitudine che permea l’intera visione: dalla passeggiata di Fern protratta in una lunga sequenza, alle riprese tra le rocce che si perdono a vista d’occhio, passando per le claustrofobiche riprese all’interno del furgone dove Fern si ritrova spesso e volentieri rinchiusa quando il clima le è avverso.

SOLITUDINE E INCERTEZZA DEL PRESENTE


L’incertezza e la solitudine dettata dalla società odierna si impattano sulla vita di Fern così come sulla vita degli altri nomadi oggetto del racconto, lasciando però spazio qui e là lungo la visione alla ricerca di contatto. Il rapporto tra Fern e David è sicuramente l’esempio più lampante da questo punto di vista, ma anche la forte amicizia tra la donna e Linda May o Swankie rappresentano elementi epicentro di sentimentalismo.
Fern viene mostrata come un’anima irrequieta, scorbutica per certi versi e fredda per altri. Ma gran parte delle sue emozioni e dei suoi atteggiamenti sono dettati dalla dolorosa perdita del marito, elemento che troverà sbocco comunicativo solo a ridosso del finale quando la tematica della morte verrà esposta in un conciso ma toccante dialogo tra Fern e Bob Wells che ha recentemente perso il figlio.

And the odd thing is that we not only accept the tyranny of the dollar, the tyranny of the marketplace. We embrace it. We gladly throw the yoke of the tyranny of the dollar on and live by it our whole lives. I think of an analogy as a work horse. The work horse that is willing to work itself to death. And then be put out to pasture. And that’s what happens to so many of us. If society was throwing us away and sending us as the work horse out to the pasture. We, work horses have to gather together and take care of each other. And that’s what this is all about. The way I see it is the Titanic is sinking and economic times are changing. And, so my goal is to get the lifeboats out and get as many people into the lifeboats as I can.

LIBERTÁ: NOMADLAND É L’INTO THE WILD MODERNO


C’è la solitudine, quindi, ma c’è anche la ricerca di nuova gioia (nel poco), un desiderio di contatto umano e di condivisione (“Happiness is only real when shared”, si diceva in Into The Wild), fattori che si sposano alla perfezione con la precaria situazione umana dettata dal nomadismo. Ad amplificare il tutto c’è poi da tenere in considerazione che il risicato cast conta non veri attori (fatta eccezione per la McDormand e David Strathairn).
A livello di richiami cinematografici, lo stile di Nomadland fa riscoprire al pubblico un desiderio di libertà che non si percepiva da Into The Wild, nonostante il fattore umano faccia assaporare, durante la visione, un gusto molto simile alle pellicole di Richard Linklater, in particolar modo Boyhood dove la tematica della ricerca di sé viene meglio espressa e trasposta sempre da un punto di vista generazionale (da bambino ad adulto).
Ma è forse proprio Into The Wild, a conti fatti, la pellicola a cui Nomadland riesce ad accostarsi in maniera più corretta, due pellicole accomunate da due forti protagonisti (Christopher McCandless/Alexander Supertramp e Fern) in lotta con la società, anche se con motivazioni diametralmente opposte: Alexander per “dispetto”, per anticonformismo (si sta qui, ovviamente, riassumendo in maniera estrema il concetto); Fern costretta a causa della società stessa, per colpa di quella “tirannia del Dollaro” che Bob Wells afferma con convinzione durante il primo ritrovo organizzato a cui Fern partecipa.

IL CONCETTO DI “MORTE” E DI “CASA”


Poco sopra si faceva menzione della tematica della morte a cui viene dedicato sia spazio riflessivo (il già citato confronto tra Bob Wells e Fern), sia spazio espositivo (il commiato da Swankie, la malattia di David). Il tutto, ovviamente, declinato sotto un’ottica di nomadismo giustificata da Bob: “Ma… ho realizzato. Avrei potuto onorarlo… aiutando le persone e servendo gli altri. Mi da un motivo per sopravvivere. A giorni è tutto ciò che ho. E là fuori, ci sono molte persone della nostra età, inevitabilmente c’è dolore e perdite. E molti di loro non lo superano. E va bene. Va bene. Una delle cose che amo di più di questa vita è che non ci sarà nessun addio. Sai, ho conosciuto centinaia di persone là fuori e non dico mai addio. Dico sempre, ‘Ci vediamo per strada.’
E lo faccio. E che sia un mese o un anno, o a volte anni, le rincontro. Guardo la strada davanti a me e mi sento fiducioso che rivedrò mio figlio. Tu rivedrai Bo. Allora ricorderete il tempo che avete passato insieme.
La tematica della morte permette al film di chiudere il proprio cerchio narrativo: avendo esposto il concetto di vita da un punto di vista fatto di esperienze, come se si trattasse di un vero e proprio viaggio, ha senso che l’ultima tappa di questo percorso sia rappresentato dalla morte, dal distaccamento di ciò che di materiale tiene ancorate le persone al mondo, dal concreto che quotidianamente le sovrasta. Un concetto, quello della vita intesa come viaggio, che cerca di presentare anche la diversa declinazione di “casa” attraverso gli occhi, diametralmente diversi, dei personaggi in scena. Per David la casa si scopre essere lì dove la sua famiglia (il figlio, la nuora e il nipote da poco nato) vivono; per la sorella di Fern sono casa le quattro mura mantenute con il sudore di anni di lavoro; per la stessa Fern casa è ora il proprio furgone.
Interessante, da questo punto di vista, il tentativo da parte di Fern di cercare di sperimentare il diverso tipo di concetto di casa (prima rimanendo con la sorella, poi con David alcuni giorni), salvo poi realizzare il proprio reale destino e decidere di portarlo a termine dando definitivamente addio alla propria abitazione ad Empire. Un distacco mostrato in scena senza alcun tipo di musicalità (le track di Einaudi accompagnano il pubblico in diversi punti e sempre con delicatezza), ma preferendo alle note il rumore della quotidianità che ormai non c’è più, in una realtà che Fern (e il pubblico con lei) sa benissimo che non potrà più tornare.
E ora è arrivato il momento della realizzazione.

You’re on the boondocks and you don’t have a spare? You can die out here. You are out in the wilderness. Far away from anybody. You can die out here, don’t you understand that? You have to take it seriously. You have to have a way to get help. You have to be able to change your on tires.


Fern interpreta lo spettatore alla ricerca di se stesso in una società complessa e articolata, smembrata da una crisi finanziaria, economica ed occupazionale che ha smantellato piccole realtà cittadine. Nomadland affronta questa tematica sociale con delicatezza, dando priorità ai personaggi e rivelandosi un progetto umanamente coinvolgente, toccante e spaventosamente odierno.

“Home is a question mark| Home is someplace I dunno| Home is a question mark| Home is someplace I dunno| Home, is it just a word| Or is it something you, carry within you| I’m happy just to be here| If I ever find home| If I ever find home| If I ever find home.” (Home Is a Question Mark, Morrissey)

 

TITOLO ORIGINALE: Nomadland
REGIA: Chloé Zhao
SCENEGGIATURA: Chloé Zhao
INTERPRETI: Frances McDormand, David Strathairn, Linda May
DISTRIBUZIONE: Searchlight Pictures
DURATA: 108′
ORIGINE: USA, 2020
DATA DI USCITA: 11/09/2020 (Venezia); 29/01/21 (USA)

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Conosciuto ai più come Aldo Raine detto L'Apache è vincitore del premio Oscar Luigi Scalfaro e più volte candidato al Golden Goal.
Avrebbe potuto cambiare il Mondo. Avrebbe potuto risollevare le sorti dell'umana stirpe. Avrebbe potuto risanare il debito pubblico. Ha preferito unirsi al team di RecenSerie per dar libero sfogo alle sue frustrazioni. L'unico uomo con la licenza polemica.

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