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Minari recensione film
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Minari

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Negli anni ’80, una famiglia coreana si trasferisce dalla California alle aperte campagne dell’Arkansas per inseguire il sogno lavorativo del padre Jacob (Steven Yeun) di creare una fattoria, il tutto nonostante le preoccupazioni della moglie. A complicare una già grave situazione famigliare, sia economica che emotiva, c’è la malattia del figlio più piccolo David (Alan Kim) e l’arrivo della suocera dalla Korea.

 

In quello che è stato un anno piuttosto travagliato per tutti, sicuramente lo è stato anche per l’industria cinematografica. L’uscita di pellicole cinematografiche ne ha chiaramente risentito posticipando o trovando vie alternative (come ad esempio Amazon Prime Video per Borat – Seguito Di Film Cinema) per essere rilasciato al grande pubblico. Minari ovviamente non fa eccezione, purtroppo, a questa situazione straordinaria essendo stato presentato al Sundance Film Festival più di un anno fa (il 26 gennaio 2020) ma venendo rilasciato a tutti solamente il 12 febbario 2021, in una situazione che comunque non è sfortunatamente migliorata.
È quindi più che lecito guardare alla freschissima vittoria ai Golden Globe di quest’anno come Miglior Film Straniero e domandarsi cosa sia Minari e di che cosa parli. Eppure, a prescindere dal recente vittoria, la pellicola scritta e diretta da Lee Isaac Chung ha tutti i motivi per acquistare una certa nomea, così come avrebbe dovuto già fare avendo vinto U.S. Dramatic Grand Jury Prize ed il U.S. Dramatic Audience Award al Sundance Film Festival, di solito anticamera di belle rivelazioni.

Minari, minari, minari.
Wonderful, wonderful.

MINARI CHICKEN SEXING


Minari è un film un po’ atipico essendo considerato un film “straniero” per il pubblico americano ma girato comunque negli Stati Uniti e con attori americani per lo più naturalizzati (come Steven Yeun) che, visto il tema della pellicola, hanno sicuramente un attaccamento maggiore al film.
Premettendo che la visione in coreano potrebbe infastidire i non amanti dei sottotitoli, bisogna però anche dire che, vista e considerata la modica quantità di dialoghi del film, c’è ampio spazio per non esserne risentiti. Anzi: la visione in coreano, oltre ad aumentare la veridicità dei dialoghi e della storia, conferisce una ricercata sensazione alienante data dall’incomprensibilità delle frasi. E d’altronde non potrebbe essere altrimenti, essendo questo un film che focalizza la sua intera trama nella ricerca del “american dream” da parte di una famiglia di coreani immigrata in USA.
I drammi della famiglia Yi sono il fulcro narrativo di Minari: trasferimento nel ridente stato dell’Arkansas dalla California; la malattia del piccolo David; l’arrivo della suocera Soon-ja; il lavoro da “chicken sexing”. Chung imposta una storia completamente in salita senza concedere nulla ad una famiglia che è già disgregata al suo interno e che vive semplicemente inseguendo un sogno. Un sogno che viene rimarcato più e più volte in maniera semplice ma cruda, enfatizzando tutte le difficoltà della vita reale, rifuggendo al tempo stesso la “cinematograficità” che vorrebbe il tutto un po’ più semplice.

MINARI MAGNETICO


La location in aperta campagna scelta da Chung è perfetta per enfatizzare l’andamento lento ma ipnotico del film. Un andamento che sembra sottolineare l’immobilità dei personaggi, legati a doppio nodo con il loro presente ed ancora di più con il loro passato. Impossibilitati praticamente a lasciarsi alle spalle il proprio status quo.
Eppure, senza spoilerare niente, ci si troverà di fronte a diversi cambiamenti (anche piuttosto drastici) che ruotano intorno alla famiglia Yi ma in particolare attorno a David e Jacob. Padre e figlio sono infatti legati tra di loro da due trame separate che però si influenzano, per forza di cose, a vicenda. In tal senso, avere due attori forti nel ruolo di protagonisti è necessario: Steven Jeun insieme al sorprendente (ma bravissimo) Alan Kim riescono a tenere alta sia la performance che l’aspettativa lungo l’intero film.

MINARI APERTO


Pur cercando di non fare spoiler sulla trama, così come da politica del sito, l’unico vero neo della pellicola è probabilmente il finale aperto con cui Chung decide di chiudere questi 115 minuti. Un finale ricco di speranza e d’ispirazione, frutto sicuramente di tutto il lavoro preparatorio fatto in precedenza, vuoi con la situazione in famiglia dovuta alla malattia del piccolo David, vuoi per le difficoltà di sopravvivere di una famiglia di immigrati in quegli Stati Uniti d’America che sono diventati famosi per “i sogni che diventano realtà”.
A dir la verità, la scelta del finale aperto non sorprende completamente, visto il ritmo narrativo e la durata del film che, chiaramente, non può ma soprattutto non vuole coprire tanti elementi della trama, utili ma non necessari al fine ultimo del regista/sceneggiatore. Chung, in perfetta armonia con il tema portante della pellicola, predilige una chiusura che lascia allo spettatore la possibilità di sognare e di immaginare il finale che più si predilige, il tutto tenendo conto delle difficoltà dell’essere immigrati in America. E con questo spirito va letto il tutto.


Minari riesce nel difficile compito di catturare l’attenzione e la simpatia del pubblico in quasi due ore di girato, prive d’azione ma ricche di sentimenti. La lentezza regna sovrana ma è quel genere di lentezza voluta e che fa bene al cuore, esattamente il motivo per cui la pellicola di Lee Isaac Chung riesce a rimanere impressa nella mente del pubblico anche a distanza di giorni rispetto alla visione. Se si riuscirà ad apprezzare il finale aperto anche a posteriori, allora si avrà capito il vero punto focale di Minari.

 

TITOLO ORIGINALE: Minari
REGIA: Lee Isaac Chung
SCENEGGIATURA: Lee Isaac Chung
INTERPRETI: Steven Yeun, Han Ye-ri, Alan Kim, Noel Kate Cho, Youn Yuh-jung, Will Patton
DISTRIBUZIONE: A24
DURATA: 115′
ORIGINE: USA, 2020
DATA DI USCITA: 26/01/2020 (Sundance Film Festival) 12/02/2021 (USA)

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Fondatore di Recenserie sin dalla sua fondazione, si dice che la sua età sia compresa tra i 29 ed i 39 anni. È una figura losca che va in giro con la maschera dei Bloody Beetroots, non crede nella democrazia, odia Instagram, non tollera le virgole fuori posto e adora il prosciutto crudo ed il grana. Spesso vomita quando è ubriaco.

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