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Person Of Interest 5×10 – The Day The World Went AwayTEMPO DI LETTURA 9 min

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We’re not living. We’re surviving. […]
I know why you didn’t give her a name. You don’t name something you may have to kill.

Listen, all I’m saying is that if we’re just an information, just noise in the system… we might as will be a simphony.

I walked in a darkness for a very long time until you guided me to light. And I wouldn’t change any of it. But we’re not going to win this way. And we can’t afford to lose. When the time comes, you’ll know what to do. And I know this is an ugliness you never wanted, but sometimes you have to fight a little. We’re fighting a war that’s already over.

Person Of Interest decide di celebrare il suo centesimo episodio, a soli tre dal series finale, nella maniera più fragorosa e struggente possibile. Sono passati poco meno di cinque anni da quando è stato trasmesso il Pilot e chissà quanti avrebbero subito scommesso che quel bizzarro e complesso show, presentatosi come un classico procedurale ma ben presto rivelatosi qualcosa di molto più complesso, potesse infine raggiungere un simile traguardo, proprio per il suo essere così singolare e controcorrente. All’inizio c’erano solo loro, Reese e Finch, ma altri si sarebbero presto aggiunti alla loro missione, finendo per far breccia nei cuori degli spettatori e di tutto il fandom, quasi tanto quanto loro. Elias e Root, tra le successive “new entry”, sono probabilmente le figure più iconiche e che ricorderemo a lungo di tutta la serie, proprio perché differiscono da personaggi come Joss Carter o Shaw, i quali, pur essendo scritti magnificamente, comunque partono da background piuttosto riscontrabili altrove.
La presentazione del primo, quel boss della malavita, col faccione insospettabile del padre di Veronica Mars di Enrico Colantoni ha dopotutto sancito, grazie al memorabile e mai dimenticato “Witness” (settimo episodio della prima stagione), proprio il momento in cui Person Of Interest si è elevata a serie sopraffina e imperdibile: il professore in pericolo che si rivela un capo mafioso, rappresentazione massima dello spirito dello show, dominato da questa ambiguità morale e dal non lasciarsi ingannare dalle apparenze, insomma dal confine perennemente labile tra il “victim” e il “perpetrator”. Ambiguità che rende possibile un rapporto, altrimenti sulla carta impossibile da sussistere, come quello instauratosi con l’integerrimo e incorruttibile Harold Finch, lo stesso che, guarda caso, troviamo furioso e scatenato col mondo intero alla fine di quest’ultimo episodio. Con sopraffina e poetica circolarità, allora, Elias trova la morte proprio lì dove l’avevamo conosciuto la prima volta e non per la causa suprema del protagonista, ma per il “rispetto” nei confronti della vita di Finch, come suggerisce il suo stesso scagnozzo. Muore nel tentativo di salvare colui che più volte ha combattuto ma da cui più volte è stato a sua volta salvato; colui col quale condivide la coesistenza di antichi e ormai dimenticati valori da una parte, e un’approccio alla società attuale oltremodo moderno dall’altra.
Nella stessa stagione, per la precisione in “Root Cause”, come suggerito dal titolo, faceva invece la sua entrata l’hacker Samantha Groves. Se Elias rispecchia la più alta espressione della macro-trama dedicata alla spietata e dura lotta metropolitana newyorchese, Root (rivelatasi solo sul finale in maniera perlopiù speculare al malavitoso e a tanti altri) lo è di quella propriamente “informatica” legata alla Machine. Il largo seguito che apparizione dopo apparizione si è via via guadagnata, però, lo si deve, innanzitutto, all’irresistibile vena di follia del personaggio, interpretato divinamente dalla mimica falsamente angelica di Amy Acker, poi per aver contribuito massicciamente ad infondere metafisica e religione alla “sacra” missione condotta da Reese e Finch. Il cammino che l’ha portata, man mano, a legarsi indissolubilmente ai due protagonisti è stato ancor più graduale e intricato di quello di Elias, tanto quanto, però, è stata la sua evoluzione interiore. Come suggeriscono le sue citazioni (tutte di questo episodio) con cui abbiamo deciso di aprire la recensione, chi avrebbe mai potuto affermare che la stessa “psicopatica”, che minacciava Shaw con un ferro da stiro, sarebbe un giorno finita col dispensare massime di vita a mezzo cast?
“The Day The World Went Away” diventa così un gigantesco e sofferto epitaffio per Root e per l’attrice che l’interpreta, la quale saluta la serie che l’ha consacrata al grande pubblico (per chi ha bisogno di rivederla ancora, si consiglia il recupero di Angel) e della quale ricorderemo sempre i pazzeschi esordi. Prova attoriale che, a proposito, convinse i produttori a confermala sempre di più, destino comune a quello del collega Michael Emerson, come vedremo più avanti, in una certa serie ambientata su un’isola. E ad Harold Finch è fortemente intrecciata la scena della sua morte, così come lo è stata la fase finale della sua vita: lui è l’ultimo uomo con la quale parla, lui viene utilizzato per dare allo spettatore un’ultima illusione di vederla salva, è soprattutto la sua voce che la Machine (da lei così a lungo venerata tanto da diventare il suo scopo di vita) decide di adottare, con quell’inimitabile (purtroppo no) e ormai storico…

Can you hear me?

Tutto l’episodio sembra voler continuamente presagire la dipartita del personaggio, fin da quella frase su “non dare un nome a qualcosa che dovrai uccidere”, riferita alla Macchina, discorso che può valere, dal punto di vista degli autori, per la stessa “Root”, nickname, come detto, di Samantha Groves. In “If-Then-Else“, d’altro canto, quando Finch gioca a scacchi con la Machine, già si parlava di Root come pedina sacrificabile. Sottigliezze a parte, quando in una serie si assiste al personaggio che ricorda la propria vita o che si prodiga in lasciti esistenziali e importanti, come quelli indirizzati ora a Shaw ora a Finch, non si può che temere per le sue sorti. Una morte che in questo senso può dirsi annunciata nel corso della puntata, ma arriva totalmente inattesa se solo si pensa al clima dell’episodio precedente, dove finalmente si consuma la riconciliazione tanto agognata con Shaw e che si chiude con la “sinfonia” di tutto il gruppo protagonista al completo.
Inattesa anche perché dal potenziale toto-morto era esclusa fin da inizio stagione, visto il prologo della season première che si apriva con la sua “voce”. La mossa in cui gli autori ingannano Finch, e gli spettatori, con tale escamotage vocale diventa allora una lezione di stile e classe, nell’era in cui i personaggi che muoiono fanno notizia solo per la loro importanza all’interno della serie, piuttosto che per il modo in cui ci lasciano, come se poi fosse una novità (ma “Not Penny’s Boat“, ce le ricordiamo solo noi?). Person Of Interest dimostra come si costruisce una dipartita significativa e raffinata, senza cedere al sensazionalismo spicciolo del colpo di scena a tutti i costi. Lo show d’altronde non è affatto avvezzo a tale pratica, dato che la sola altra morte importante, quella di Joss Carter, non solo ce la ricordiamo tutti per le emozioni che ci ha fatto provare, ma ha condizionato la trama di quasi due stagioni, così come quelle di Root e di Elias condizioneranno probabilmente le sorti della battaglia finale viste le reazioni nel personaggio di Finch e il suo personale “giorno in cui il mondo è finito”.

I was talking about my rules. I have lived by those rules for so long. Believed in them for so long. Belevied that if you played by the right rules, eventually you would win. But I was wrong, wasn’t I? And now all the people I cared about are dead. Or will be dead soon enough. And we will be gone without a trace. So now I have to decide. Decide whether to let my friends die, to let hope die, to let the world.

Harold Finch è quindi l’altro grande protagonista di puntata che da “victim” passivo per tutto l’episodio, finito nelle mire di Samaritan in maniera quasi forzata e frettolosa, diventa fragorosamente “perpetrator” in chiusura, costretto ad assistere alla morte dei suoi amici e collaboratori. Come preannuncia la macchina da presa e il montaggio che lo vede entrambe le volte salire in auto a rallenty (ricordate lo stile?), le due perdite lo segnano nel profondo. Fin dalla season premiére di quest’anno avevamo preventivato centralità e svolta per il suo personaggio, considerando che c’è ancora da risolvere il mistero della sua identità, come il dialogo con l’agente dell’FBI deliziosamente riassume alla perfezione.
La pericolosità nascosta nell’animo dell’esteriormente pacato Harold è in fondo da sempre suggerita maliziosamente dagli autori, e adesso è pronta ad esplodere. A tal proposito va sottolineata, anche qui, la prova di un Michael Emerson gigantesco, che a tratti riporta alla mente il Benjamin Linus di Lost, specialmente nell’ultimo passaggio. Dopotutto, in questo senso perlomeno, i personaggi tendono ad assomigliarsi, e nel monologo finale si rivedono quegli inquietanti occhi a palla che avevano catturato e scioccato, al momento del suo smascheramento, gli spettatori della serie. Ricordiamo, infatti, che il personaggio di Ben non doveva durare e avere la rilevanza che ha poi avuto, ma vista proprio la magnifica interpretazione di Emerson i produttori non han voluto lasciarselo fuggire (come la Acker, dicevamo). Purtroppo l’attore non vincerà l’Emmy, probabilmente neanche sarà candidato, così come la collega Amy Acker (aridaje), eppure si meriterebbe tutti i premi di questo mondo.
La canzone finale che accompagna la sua fuga, “The Day The World Went Away”, primo singolo dei Nine Inch Nails, sottolinea, in conclusione, la svolta cruciale della trama, come solo Person Of Interest ci ha abituato ad “ascoltare”, vedi la proposizione, in passato, di ‘”Hurt” di Johnny Cash per il lutto della Carter o dei Radiohead nel fantastico finale della terza stagione, per esempio. Come profetizzato da Elias, il giorno in cui il “silenzioso” Harold Finch, per la Machine il “perpetrator” nei confronti di tutto il mondo, è pronto a rivelarsi nella sua reale e profonda forma è arrivato.

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • Tutto quello che dice Root
  • Il monologo finale di Harold
  • Amy Acker e Michael Emerson da Emmy
  • La (finta) freddezza di Shaw alla notizia della morte di Root, completamente “in character”
  • La pregevole fattura che caratterizza anche e soprattutto il lato tecnico
  • Can you hear me?
  • Stiamo davvero arrivando alla fine

 

Caro Jonathan Nolan, ancora una volta, chapeau. Dopo una partenza non del tutto esaltante, l’ultima stagione di Person Of Interest segna il colpaccio, regalandoci non solo una coppia di episodi da “benedire” ora e sempre (specialmente e indimenticabilmente l’ultimo), ma dando una brusca accelerata all’evoluzione dei personaggi e alla trama generale che promette di lasciarci col fiato sospeso per tutto il rush finale. Nell’attesa, piangiamo il lutto di due pilastri della serie e malediciamo il fatto che, proprio per questo, sembra stia finendo tutto per davvero.

 

Sotto Voce 5×09 5.49 milioni – 0.9 rating
The Day The World Went Away 5×10 6.66 milioni – 1.0 rating

 

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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.

1 Comment

  1. Ottima recensione, ma a me a questo punto sorge una domanda: siamo davvero sicuri che Root sia morta? Il suo discorso sulle simulazioni, sul fatto che "they exist as long as the machine exists" (non ricordo le parole esatte, ma il significato era questo) parlando degli amici morti, non è che sia un indizio che indichi come il tutto sia un'unica, gigantesca simulazione?
    Per me alla fine vedremo Finch decidere cosa fare della macchina, e scopriremo che tutto, dall'inizio, non era che una simulazione. Magari da ancor prima della morte di Carter.
    Forse troppo semplicistico, ma c'è qualcosa che mi porta verso quella direzione..

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