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Narcos: Mexico 3×10 – Life In WartimeTEMPO DI LETTURA 5 min

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Narcos: Mexico 3x10 recensioneSulle note finali di “El Corrido de Amado Carrillo Fuentes“, cantata da Tomás Sevillal e Melquiades Sevilla, si chiude definitivamente il percorso del franchise Narcos e, nello specifico, di Narcos: Mexico.
Quello a cui si assiste però non è un finale piacevole, anzi è piuttosto amaro insipido per via delle scelte fatte nei confronti dei singoli personaggi (Walt su tutti), ma lo è ancora di più per il modo in cui tutto viene messo in scena e, soprattutto, concluso.
Certo, si capisce benissimo il perché Carlo Bernard, co-creator and showrunner, abbia deciso di finire in questo lento e agognato modo con tante trame aperte, e lo conferma lui stesso in una recente intervista dove spiega che questa guerra tra cartelli e lo spaccio di droga lungo la frontiera continua. Probabilmente questo può essere considerato come un finale molto divisivo per chi apprezza la scelta “politica” di terminare coerentemente con la realtà attuale dei fatti, mentre dall’altro ci sarà chi avrebbe apprezzato un senso di chiusura che, oggettivamente, manca completamente.

Pretty sure the drugs are winning.

ALLA FINE C’ERANO UN PO’ TROPPE STORYLINE


Come da tradizione, nel momento in cui si analizza un season/series finale è giusto anche ridare uno sguardo al passato per capire il tragitto voluto dallo showrunner di turno. E, in tal senso, Carlo Bernard è sfortunatamente subentrato nel ruolo di showrunner in una stagione difficile che ha avuto troppe prime donne e che mancava di una figura centrale che aiutasse la narrazione, come poteva essere Pablo Escobar in Narcos o Felix Gallardo nelle scorse due stagioni.
La difficoltà che si è venuta a creare circa la gestione di così tante trame orizzontali era scontata e, tutto sommato, si può dire che Bernard e il suo team di sceneggiatori se la siano cavata egregiamente. Purtroppo però, sia questo series finale che il resto della stagione hanno enfatizzato un paio di problematiche relative alla gestione del minutaggio e all’inserimento di un character detestabilissimo e privo di qualsivoglia possibilità di empatia: Victor.
Se da un lato Bernard ha sentito il bisogno di “live up to expectations” dei suoi predecessori, e probabilmente anche di Netflix, dall’altro a posteriori non si vede alcun bisogno di raggiungere e superare i 50 minuti di visione in ogni singola puntata. Una necessità interiore che è ovviamente sfociata nella creazione del character di Victor e nella sua storyline confusa. Una storyline che tocca come una tangente diversi personaggi senza mai incidere veramente in modo significativo per nessuno. Tempo perso.

UN SERIES FINALE SBIADITO


Negli ultimi 68 minuti della serie si assiste ad un lungo debrief dei personaggi. Con la caduta del Generale Rebollo tutta quella parvenza di rivoluzione messicana contro il narcotraffico viene meno e, insieme a quella, anche la partnership con la DEA.
Tutti i protagonisti, in un modo o nell’altro, annusano un’impossibilità generale che ammorba ogni possibile cambiamento. C’è la sensazione, se non la certezza, che in questa guerra d’intenti nessuno ne uscirà vincitore. La verità è che Carlo Bernard punta ad enfatizzare questo generale senso di sconfitta che va di pari passo con una mancanza di volontà ad accettarlo che, però, piano piano diventa sempre più forte e reale.

Walt:You ever want something that you couldn’t get? No matter how hard you pushed?
Andrea:What do you do when that happens?
Walt:I don’t know. Learn to stop wanting it. […] Everyone’s talking about Rebollo, but it’s not that simple. We’re not the good guys. I’m not a good guy.

Il dialogo, per non dire confessione, tra Walt e Andrea è piuttosto chiaro da questo punto di vista, un po’ meno lo è il montaggio e la scelta di lasciare molte storyline (fin troppe) aperte. Certo, c’è una necessità generale di seguire i fatti reali ma bisogna anche saper venire a patti con lo spettacolo che si mette in piedi, cosa che non viene proprio fatta.
Gli Arellano rimasti, dopo aver lottato con i denti per sopravvivere, non sembrano aver un chiarissimo piano per ritornare in auge; Chapo, dopo essersi sbarazzato di Palma e Neto, sembra improvvisamente il carismatico capo di Sinaloa che i giornali hanno dipinto negli anni; Walt ha scelto nuovamente il lavoro piuttosto che l’amore; Andrea sembra essersi rassegnata; Amado invece…

LA MORTE(?) DI AMADO


Già, Amado: è veramente morto?
Come in ogni storia riguardante la morte di una figura di spicco di cui però non si è visto il cadavere, le leggende metropolitane si sprecano. Anche a ragion veduta, si può dire. Si, perché la scelta di Carlo Bernard di lasciar intendere che Amado sia riuscito effettivamente ad andare in Cile non è meramente scenica ma riflette una delle tante teorie che echeggiano intorno a lui. Se da un lato la DEA ha confermato la morte del nipote di Neto in sala operatoria durante un’operazione di chirurgia plastica il 4  Luglio 1997, dall’altro è altrettanto vero che il corpo non è mai stato mostrato al pubblico. Oltretutto, il 7 Novembre 1997, i due medici che eseguirono l’intervento su Carrillo vennero trovati morti in botti di ferro con evidenti segni di tortura e ricoperti da cemento.
Lasciare aperta la possibilità che Amado sia vivo non è quindi casuale ma è coerente con quanto rumoreggiato e anche con il suo volere, sbandierato più e più volte durante la stagione. In tal senso la sua fuga, con tanto di sparatoria, è probabilmente la parte migliore dell’episodio, il che ben si abbina con il fatto che il suo carisma ed il suo essere taciturno lo abbiano reso il character d’eccellenza di questa stagione.

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • Finale aperto sulla sopravvivenza di Amado
  • Confronto Walt-Andrea
  • Regia sempre molto attenta al dettaglio
  • Canzone finale
  • Episodio decisamente lungo 
  • Victor riceve ancora una volta troppo spazio
  • La generale sensazione di inconsistenza, comprensibilmente, non può piacere alla maggior parte del pubblico

 

Narcos: Mexico si chiude con un calando che non tutti potranno apprezzare. E va bene così: la serie fortunatamente giunge ad una conclusione, mentre la realtà del narcotraffico in Messico è ancora piuttosto viva. Probabilmente è meglio così, magari nel lungo periodo Carlo Bernard potrebbe aver fatto la scelta giusta. Potrebbe.

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Fondatore di Recenserie sin dalla sua fondazione, si dice che la sua età sia compresa tra i 29 ed i 39 anni. È una figura losca che va in giro con la maschera dei Bloody Beetroots, non crede nella democrazia, odia Instagram, non tollera le virgole fuori posto e adora il prosciutto crudo ed il grana. Spesso vomita quando è ubriaco.

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