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Twin Peaks 3×17 – 3×18 – The Return, Part 17 – The Return, Part 18TEMPO DI LETTURA 17 min

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“We live inside a dream. I hope I see all of you again. Every one of you.”

Non è facile scrivere di questo series (o season?) finale di Twin Peaks: non è facile per via della sua complessità, per la sovrabbondanza di informazioni, di citazioni, di rimandi, di riferimenti nascosti in ogni dettaglio, che andrebbero analizzati e sviscerati uno per uno; non è facile perché quel grandissimo genio (o arrogante megalomane che ha abusato del privilegio più unico che raro di una totale libertà artistica, a seconda dei punti di vista) di David Lynch ha evitato accuratamente di creare una conclusione chiara e limpida, preferendone una che si apre a più interpretazioni, al punto da far sembrare poca cosa i dibattiti sorti intorno ai finali di Neon Genesis Evangelion o The Sopranos; non è facile, infine, perché un finale così atteso e al contempo così spiazzante può facilmente generare delusioni e frustrazioni, può essere accolto come una presa per i fondelli, può far gridare allo scandalo e al tradimento di ciò che era il vecchio Twin Peaks e portare addirittura a giudicare una totale perdita di tempo diciotto ore di visione. Opinioni legittime, per carità, ma che non rendono giustizia al lavoro del regista di Missoula, che avrebbe potuto percorrere la rassicurante e sicura strada del revival fondato sulla nostalgia, sugli spiegoni espliciti e razionali della mitologia delle Logge e sul recupero dei vecchi, iconici personaggi tanto amati dal pubblico e invece ha intrapreso una via ben più audace, dal punto di vista commerciale e di riscontro del pubblico: ha relegato in secondo piano la vecchia Twin Peaks (e il trattamento subito dalla figura di Audrey Horne ne è l’emblema) e ha messo bene in chiaro fin dalla nuova sigla, che conserva la celebre melodia di Angelo Badalamanti ma sostituisce alle rassicuranti immagini di uccellini e segherie quelle delle tende rosse e del pavimento a motivo chevron della Red Room, la sua intenzione di approfondire l’aspetto sovrannaturale, “mistico” e irrazionale della sua creazione, a scapito di quello soap e melodrammatico, pur presente ma in una posizione fin troppo marginale.

“We’re just entering Twin Peaks city limits. Is the coffee on?”

Da qualcosa, però, bisognerà pur iniziare a scrivere ed è meglio farlo da “Part 17”, sia perché, molto banalmente, è l’episodio che viene prima sia soprattutto perché è quello più “normale”, più vicino a un series finale nel senso tradizionale del termine, pieno com’è di scoperte, di incontri, di risoluzioni e, apparentemente, persino di un lieto fine. La puntata si apre con un’importante rivelazione di Gordon Cole a Tammy e Albert, che dà risposta a una domanda vecchia di venticinque anni: Judy, la misteriosa persona o entità di cui parlava Phillip Jeffries in “Twin Peaks: Fire Walk with Me”, in “Twin Peaks: The Missing Pieces” e più recentemente in “Part 15” è in realtà Jowday, un’entità malvagia antichissima da identificare presumibilmente con The Experiment, l’umanoide visto nella scatola di vetro in “Part 1” e poi nell’atto di espellere dalla bocca (in una sorta di atto di creazione o di invio sulla Terra) la sfera nera contenente BOB e svariate uova in “Part 8“. Non c’è però tempo per ulteriori chiacchiere e una telefonata da Las Vegas in cui si inserisce Bushnell Mullins, portatore di un messaggio di Dale Cooper, spinge i tre agenti a partire immediatamente per Twin Peaks, verso cui si stanno dirigendo anche, per vie e con finalità diverse, i due Cooper. L’ufficio dello sceriffo Truman si trasforma così nel punto di convergenza di filoni narrativi che fino ad ora sono rimasti separati o hanno solo parzialmente interagito: nella stessa stanza si ritrovano lo sceriffo stesso, Andy, Lucy, Hawk, Mr. C, BOB, Freddie, James, Naido, Cooper, i fratelli Mitchum, Candie, Mandie e Sandie, Bobby, Gordon, Albert e Tammy.
Nella prima metà dell’episodio Lynch confeziona la parte forse più concitata e movimentata di questo revival, in cui Mr. C trova la morte per mano di un’inaspettata Lucy e BOB è ridotto in frantumi (ucciso, o forse solo rispedito nella Black Lodge o in chissà quale altra dimensione) da Saitama Freddie, in un combattimento che sembra tanto la trasposizione live di un battle shonen manga nipponico (addirittura il One-Punch Man dello Stato di Washington scende in battaglia al grido di “This is my destiny Dragon Ball!”) e che dimostra per l’ennesima volta come Lynch sia capace di dare vita a sequenze terribilmente ridicole e pacchiane che però funzionano benissimo all’interno della sua opera e del suo universo narrativo. Può far storcere il naso la scelta di far “morire” BOB per mano di un personaggio introdotto solo un paio di puntate fa e tutt’altro che approfondito, oltre alla mancanza di qualsivoglia interazione tra Cooper ed il suo doppelganger all’infuori del semplice gesto di mettere al suo cadavere l’anello verde che lo riporta nella Red Room, ma si tratta di due macchioline in un episodio che regala scene semplicemente stupende: la breve permanenza di Mr. C nella White Lodge, in cui adesso dimora anche la testa del maggiore Briggs, prima di essere spedito a Twin Peaks tramite lo stesso marchingegno che in “Part 8” fu usato per mandare la sfera dorata di Laura Palmer sulla Terra; la “liberazione” dal corpo-involucro di Naido della vera Diane, quella coi capelli rossi (mentre la tulpa li aveva bianchi); l’incontro tra Cooper e Phillip Jeffries nel Convenience Store in cui l’ha condotto MIKE. E a questo punto inizia il delirio.

“Through the darkness of a future past…”

L’epopea di Cooper nell’arco di diciassette episodi, iniziato nella season premiere abbandonando la Red Room e culminato nel risveglio in “Part 16“, non può dirsi concluso con la sconfitta di Mr. C, ucciso sì da Lucy, ma rispedito nel luogo a cui appartiene proprio dall’agente dell’FBI: c’è ancora altro da fare, ancora un’ultima missione fondamentale da svolgere prima di godersi il meritato happy ending. Le scene nella White Lodge di “Part 8” e le parole della Signora Ceppo a Hawk “Laura is the one” in “Part 10” avevano ormai messo in chiaro quanto fosse importante la figura della ragazza su un piano sovrannaturale e metafisico (senza considerare il “Find Laura” di Leland, all’interno della Red Room); alla luce di queste informazioni non bisogna stupirsi, dunque, se lo scopo ultimo di Cooper è viaggiare indietro nel tempo, con l’aiuto di Jeffries, fino a quel fatidico 23 febbraio 1989 in cui la ragazza trovò la morte, per evitare il tragico avvenimento. Ancora una volta Lynch ripropone intere scene dal film Fire Walk with Me, come era già successo in “Part 14“, e vi aggiunge all’interno la figura di Cooper stesso, che si fa silenzioso osservatore dell’ultimo dialogo tra Laura e James, attendendo che i due si separino; solo a quel punto agisce, tendendo la mano a Laura in una silenziosa offerta di salvezza, mentre risuonano le note del celeberrimo e struggente Laura Palmer’s Theme.
“The past dictates the future”, aveva affermato qualche minuto prima Cooper, rivolto alle persone presenti nell’ufficio dello sceriffo Truman: non appena Laura si incammina insieme a lui mano nella mano (nelle scene in questione Sheryl Lee sembra più giovane, forse merito della CGI), il passato viene modificato e si assiste alla “correzione” delle scene iniziali del pilot, col cadavere della ragazza che semplicemente sparisce e non viene, di conseguenza, ritrovato da Pete Martell. In apparenza il Bene ha trionfato sul Male, l’anima inviata sulla Terra dal Fireman e da Senorita Dido è salva e Judy/The Experiment se ne rende conto, o almeno così suggerisce la reazione di Sarah Palmer (la quale, se non è ricettacolo di Judy stessa ne contiene quantomeno un frammento, se si dà per buona la sua identificazione con la ragazza addormentata nel finale di “Part 8“): fuori di sé, la donna scaglia per terra la foto della figlia e vi si accanisce contro, tempestandola di colpi che mandano in frantumi il vetro ma non la foto stessa, in una scena che potrebbe anche essere letta in senso meta-testuale come accanimento dello stesso Lynch contro il vecchio Twin Peaks, di cui la foto di Laura era una sorta di emblema, di simbolo.
Ma proprio quando tutto sembra andare per il meglio, arriva il colpo di scena, un vero e proprio pugno nello stomaco tanto per gli spettatori quanto per Cooper: Laura sparisce e nell’oscurità della notte risuona il suo urlo, seguito dal rumore del treno. Laura Palmer è morta lo stesso, in un altro modo magari, perché la sua morte è inevitabile, è un punto fermo dell’intero universo e per questo immodificabile? Judy e BOB sono troppo forti per Cooper e il Male trova sempre il modo di vincere? Oppure Laura è stata effettivamente salvata, ma è finita altrove, magari scaraventata in un’altra dimensione da una furibonda Judy?

“… The magician longs to see…”

L’andamento ciclico della narrazione di Twin Peaks si rende ancora più palese in “Part 18”: non contento di aver riportato Dale Cooper fino alla notte in cui tutta la storia ebbe inizio, Lynch gli fa rivivere gli stessi, identici dialoghi già avuti in “Part 2” con MIKE e coi doppelganger di Laura e di Leland, mentre frasi come “Is it the future or is it the past?” e “Find Laura” assumono nuove sfumature alla luce della consapevolezza che il tempo si stia ripetendo. Non si tratta, tuttavia, di una ciclicità perfetta: l’evoluzione del Braccio pronuncia una domanda, “Is it the story of the little girl who lived down the lane?” , assente dai suoi precedenti dialoghi con Cooper e presente, invece, nel dialogo tra Audrey e Charlie in “Part 13” (indizio del fatto che tutto sia solo un sogno di Audrey?); inoltre Cooper non incontra nessun doppelganger del Braccio, non precipita nel vuoto e ricompare fuori dalla Red Room a Glastonbury Grove, dove si ricongiunge con Diane.
Per ventisette anni Diane è stata una figura senza volto, una indefinita interlocutrice muta, o piuttosto ascoltatrice, di Cooper e per questo qualcuno pensava pure che non esistesse, che fosse immaginata dal buon Dale; poi il personaggio è comparso in carne e ossa, con le fattezze per di più di una bravissima attrice quale Laura Dern, e ciò è stato senza dubbio una graditissima sorpresa, una delle tante di questo revival (anche se, a voler esser pignoli, quella che si è vista per una decina di episodi era una tulpa della vera Diane). Adesso Lynch sembra volerle riservare un lieto fine con l’uomo che ama, così come ne ha riservato uno a Big Ed e a Norma, ma ancora una volta “the owls are not what they seem” e la scena di sesso tra lei e Cooper, abbastanza lunga (circa tre minuti) e accompagnata dalle note di My Prayer dei Platters, si rivela tutto fuorché passionale: lui non mostra quasi il minimo trasporto (era molto più coinvolto con Janey-E), lei a un certo punto cerca di schiacciare il volto dell’uomo (in maniera vagamente simile al modo in cui il Woodman uccideva la gente in “Part 8” – dove tra l’altro suonava la stessa canzone) e sembra persino sofferente nell’ultima parte. Per di più poco prima, fuori dal motel in cui fanno sesso, Diane aveva visto un suo doppio (anche lei coi capelli rossi, quindi più che una sua tulpa potrebbe essere la sua doppelganger), dettaglio apparentemente insignificante che però getta una nuova luce inquietante sul suo personaggio e sulla sua sparizione la mattina seguente.
Cooper è di nuovo solo on the road, come lo è stato Mr. C per buona parte della stagione, e al doppelganger sembrano avvicinarlo anche i modi che sfoggia nella tavola calda di Odessa in cui si ferma attirato dal nome, “Eat at Judy’s”; ma si tratta fortunatamente sempre del buon vecchio Dale, se non di nome (quello è Richard, a quanto pare, ma se ne parlerà dopo) almeno nella sostanza, e il suo obiettivo è sempre lo stesso: trovare Laura Palmer. E la trova, o meglio trova una donna che le è identica, ma che dice di chiamarsi Carrie Paige e di non conoscere nessuna Twin Peaks; tuttavia la Laura-non-Laura accetta di seguirlo in un nuovo viaggio on the road, nelle tenebre della notte. Prima sesso con Diane, poi in viaggio con Laura Palmer: in nemmeno venti minuti David Lynch mette Cooper in situazioni in cui, all’inizio di questo revival, nessuno spettatore avrebbe mai immaginato di vederlo.
La presunta casa dei Palmer è l’ultima tappa del viaggio di Cooper, l’ultima doccia fredda che l’agente dell’FBI deve subire e con lui lo spettatore, che vede i minuti scorrere, l’episodio farsi sempre più vicino alla conclusione e le speranze di avere un finale chiaro o anche vagamente comprensibile andare in fumo: la casa non appartiene a Sarah e a Leland ma a una certa Alice Tremond, e prima di lei a una certa signora Chalfont, e ancora prima non si sa. I due cognomi in questione, Tremond e Chalfont, non sono certo estranei all’universo di Twin Peaks e rimandano anzi al mondo sovrannaturale, ma il dubbio e la confusione crescono, nella mente dello spettatore così come in quella di Cooper, che arriva addirittura a domandarsi “What year is this?”. E proprio quando ci si inizia a chiedere se tutta la storia di Laura Palmer, di Leland, di Sarah, delle Logge, degli spiriti non sia stato un semplice sogno di Cooper o un parto della sua immaginazione, il maestro tira fuori il suo ultimo spiazzante, sconvolgente colpo di genio: quando Laura/Carrie solleva lo sguardo sulla casa che dovrebbe appartenere a sua madre sente la sua voce che la chiama e qualcosa nella sua memoria riaffiora, qualcosa di orribile, che la spinge a urlare a pieni polmoni (Sheryl Lee meriterebbe un Emmy per la categoria “Best Scream”), prima che si spengano le luci della casa, seguite dalla calata totale del buio. Lunghi secondi di silenzio e di totale oscurità, infine i titoli di coda, con la scena ripetuta in loop di Laura che sussurra all’orecchio di Cooper nella Red Room parole che noi spettatori forse non conosceremo mai e che forse contengono il segreto ultimo per comprendere davvero Twin Peaks.

“… One chants out between two worlds…”

Nessuno, probabilmente, si aspettava da David Lynch un finale pienamente chiarificatore e risolutore, nemmeno lo spettatore più ingenuo e ottimista: sarebbe stato alieno al suo stile surreale e visionario e sarebbe stato alieno alla natura e alle atmosfere di una terza stagione che ha sempre lesinato sulle spiegazioni razionali (la citazione, a titolo di esempio, di “Part 8” è quasi scontata). Ciò che spiazza è la quantità di personaggi apparsi sullo schermo e mai più ripresi, di subplots e di storylines che il regista di Missoula lascia senza una conclusione al termine delle diciotto ore di visione, di misteri che rimangono irrisolti o comunque sospesi nel limbo delle interpretazioni: Becky è stata uccisa da Steven o ha raggiunto la madre alla tavola calda? Hawk ha trovato solo tre delle quattro pagine strappate dal diario di Laura Palmer, che fine ha fatto l’ultima? Qual è l’origine dei rumori al Great Northern Hotel e sono legati per caso a Josie Packard? Che fine ha fatto Billy, l’apparente amante extraconiugale di Audrey? E cosa è successo a quest’ultima: è in coma o in una dimensione parallela o in uno spazio simile alle Logge o chissà dove altro? Chi è l’ubriacone sfigurato nelle prigioni di Twin Peaks? Chi o cosa è Diane e perché vede un suo doppio al motel in cui passa la notte con Cooper? Domande su domande, misteri su misteri.
Soprattutto, come va interpretato questo finale? Innanzitutto c’è l’ipotesi del sogno, che non sarebbe nemmeno aliena alla filmografia passata del regista, si pensi a Lost Highway, a Mulholland Drive e a Inland Empire: ma il sogno di chi? “But who is the dreamer?”, si chiedeva Monica Bellucci nel sogno di Cole in “Part 14“. Si è già accennato alla possibilità che the dreamer sia Audrey, ipotesi affascinante ma che cozza col ruolo tremendamente marginale del personaggio nel revival; ma potrebbe trattarsi invece di Laura Palmer e l’urlo finale andrebbe letto come la reazione di chi si risveglia all’improvviso da un incubo; oppure il sognatore potrebbe essere Cooper, lo proverebbero la sua frase “We live inside a dream” e il suo faccione in sovra-impressione per una parte di “Part 17”, come se il vero Cooper (Richard?) fosse lo spettatore dello spettacolo che si svolge nella sua mente.
C’è poi un’altra possibile interpretazione: Cooper, Diane e Laura passano da una realtà all’altra, da un mondo all’altro. Quando Cooper si risveglia, dopo la notte di passione di Diane, trova una sua lettera: la donna si rivolge a lui chiamandolo Richard e firmandosi come Linda, gli stessi nomi citati dal Fireman nella scena di “Part 1” presumibilmente ambientata nella White Lodge (il fatto che Lynch non l’abbia più ripresa, a differenza di altre della season premiere, rende ancora più complessa la sua collocazione temporale), e afferma di non riconoscerlo più, come se fosse un’altra persona. Quando esce dal motel in cui ha passato la notte, l’architettura esterna di questo è cambiata così come è cambiato il modello di auto con cui viaggia, entrambi sono divenuti più moderni (come se ci fosse stato appunto un salto dimensionale o temporale, o forse anche entrambi insieme). E quando finalmente trova Laura Palmer, ella in realtà è Carrie Page di Odessa e non ha nessun ricordo di Twin Peaks, è un’altra persona. Solo Cooper sembra ricordare la precedente esistenza.

“… Fire walk with me.”

Ci sono altri due dettagli che rendono questo finale tanto intrigante quanto geniale. Quando Cooper e Laura/Carrie arrivano a Twin Peaks, ci sono gli stessi edifici e le stesse case di sempre ma manca l’iconico cartello di benvenuto: è come se quella non fosse più la Twin Peaks della finzione narrativa ma fosse tornata a essere Snoqualmie, la cittadina dello Stato di Washington usata per la maggior parte delle riprese di esterni, la vera Twin Peaks in un certo senso. In secondo luogo, l’attrice che interpreta Alice Tremond, Mary Reber, è dal 2014 la reale proprietaria della casa che nella finzione televisiva apparteneva alla famiglia Palmer. L’universo fittizio partorito dalla mente di Lynch e l’universo reale in cui vivono i suoi spettatori, i suoi attori e il suo autore si fondono e si confondono.
Forse la chiave per capire il finale sta nella figura che Jeffries crea al momento dell’incontro con Cooper, trasformando il simbolo della Owl Cave associato alla Black Lodge in un nastro di Möbius, in cui le due superfici non sono separate perché esistono un solo lato e un solo bordo ed è dunque possibile passare senza soluzioni di continuità da una faccia all’altra: dalla realtà al sogno, dal futuro al passato, da una dimensione all’altra. Proprio il concetto del nastro di Möbius è riscontrabile in altre pellicole presenti nella filmografia di Lynch, tra tutte Mulholland Drive e Lost Highways. Forse il regista non ha mai pensato a un’interpretazione univoca, forse tutte le interpretazioni sono legittime o forse non lo è nessuna perché la realtà, qualunque cosa essa sia, è troppo complessa, troppo multiforme, troppo sfuggevole all’intelletto umano per poter essere compresa appieno e ricondotta a un mero schema razionale e ordinato.
Ma è davvero così importante, alla fine, dare un senso logico a quello che succede sullo schermo? E’ davvero così importante trovare una spiegazione razionale a una storia frutto della visionarietà più sfrenata e dello sperimentalismo visivo e narrativo più estremo, che riesce a sorprendere, ad estasiare, a inquietare come nessun’altra? Jowday, il nome dell’entità malvagia studiata dal progetto Blue Rose, ricorda molto il verbo cinese 交代 “jiāodài” che significa “spiegare, rendere chiaro”: la spiegazione razionale, la volontà di dare a tutti i costi un senso a ciò che si ha di fronte, di dominarlo con la ragione come se ciò gli facesse acquisire un valore aggiunto invece di rovinarne, magari, la bellezza non sono forse il Male assoluto per l’immaginazione e la creatività umana?

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • Tutto (e il contrario di tutto, a seconda dei punti di vista)
  • Idem con patate

 

Ventisette anni fa, Twin Peaks fu un uragano tropicale che scosse il panorama televisivo e dimostrò che un’altra televisione era possibile: storie più complesse, tematiche più mature e delicate, maggiore autorialità, sperimentalismo formale, tecniche ed estetiche più vicine al mondo cinematografico. E’ ancora presto per capire se questa terza stagione avrà un impatto altrettanto dirompente sul mondo seriale contemporaneo (che è diventato quello che è ora proprio grazie alle innovazioni introdotte dalla serie della ABC nel lontano 1990) o se rimarrà una mosca bianca, uno splendido e spettacolare esperimento destinato a non ripetersi più, ma una cosa è certa: Lynch ha portato il medium televisivo ai suoi limiti e li ha oltrepassati, confezionando un prodotto che fa sembrare Westworld, Legion e American Gods delle storielle tradizionali e dimostrando che l’epica e roboante spettacolarità di Game of Thrones non è l’unico vertice che la televisione può raggiungere, e nemmeno il più alto. Siamo di fronte a qualcosa che non è più solo televisione o cinema o narrazione audiovisiva toutcort, ma è anche poesia, pittura in movimento, installazione d’arte moderna nel medium televisivo: in breve, un’esperienza artistica a 360 gradi.

 

The Return, Part 16 3×16 0.27 milioni – 0.1 rating
The Return, Part 17 3×17 0.25 milioni – 0.1 rating
The Return, Part 18 3×18 0.24 milioni – 0.1 rating

 

 

 

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Divoratore onnivoro di serie televisive e di anime giapponesi, predilige i period drama e le serie storiche, le commedie demenziali e le buone opere di fantascienza, ma ha anche un lato oscuro fatto di trash, guilty pleasures e immondi abomini come Zoo e Salem (la serie che gli ha fatto scoprire questo sito). Si vocifera che fuori dalla redazione di RecenSerie sia una persona seria, un dottore di ricerca e un insegnante di lettere, ma non è stato ancora confermato.

4 Comments

  1. Personalmente la poetica di Lynch mi pare sempre più come un'enorme Matrioska che apri, esamini in ogni punto, per poi aprirne una più piccola, e ripetere il processo all'infinito, senza mai arrivare alla bambola finale, quella dalle dimensioni minime. Come se partisse sempre lanciandoci delle piccole dosi razionali per sfociare in deliri onirici e grotteschi, 1000 indizi dei quali pochissimi s'incastreranno mentre altri rimarrano sospesi sempre lì. Dopo Inland Empire ho rinunciato ad ogni sorta di decodifica razionale, non è lo strumento adatto per fruire di queste opere. Mi ricorda un pò il bimbo che chiede il perchè, il perchè del perchè e così all'infinito, mentre qui ormai siè entrati in una materia assolutamente A-Razionale. Come quando in un sogno un personaggio che magari ne ha popolato i 3/4 all'improvviso scompare e via, si continua con altri. The Retuirn è stato delizioso, ma soprattutto estenuante…

  2. Mi piace l'immagine della matrioska di cui non si riesce mai a raggiungere l'ultima bambolina, perché la sensazione che ti dà questo finale è proprio di una verità, di un senso del tutto che non potrai mai raggiungere per quanto provi ad avvicinarti e per quanto ne analizzi i dettagli fino al livello più microscopico, e intanto ti godi il viaggio (e che viaggio!).

  3. Un dettaglio che non è stato menzionato: prima di risvegliarsi nei panni di richard e linda coop e diane sanno che cosa sta per accadergli, nel momento in cui scelgono in auto di andare oltre e darsi un ultimo bacio sapendo che varcato quel confine (di quel mondo con quell'altro) potrebbero ritrovarsi cambiati e separati per sempre

  4. Vero, è uno di quei tanti dettagli che sono rimasti fuori dalla recensione per evitare di appesantirla troppo (e già così temo di averci inserito troppa roba, ma d'altronde sono stati due episodi così densi e pieni). Per di più il passaggio da un mondo all'altro avviene a 430 miglia da Twin Peaks, il che si ricollega alle parole iniziali del Giant/Fireman. Resta solo da capire cosa siano i due piccioni da prendere con una fava, forse il salvataggio di Laura Palmer legato alla distruzione di Judy? D'altronde che Laura sia speciale è ormai chiaro e il Fireman manda la sua sfera dorata sulla Terra proprio dopo aver visto Judy/Experiment che espelle la sfera di Bob e le uova con le rane-insetto, evidentemente per fermarla.

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