Monkey Man
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Monkey Man

Nella città indiana di Yatana, un giovane si guadagna da vivere in un fight club clandestino combattendo nei panni di Monkey Man e pianifica la sua vendetta contro gli uomini corrotti che anni prima hanno sterminato il suo villaggio e ucciso sua madre. Tuttavia, proseguendo lungo la strada della vendetta, si ritroverà involontariamente a essere il salvatore delle persone povere e impotenti, tormentate da quegli stessi leader malvagi contro i quali cerca vendetta.

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Nella città indiana di Yatana, un giovane si guadagna da vivere in un fight club clandestino combattendo nei panni di Monkey Man e pianifica la sua vendetta contro gli uomini corrotti che anni prima hanno sterminato il suo villaggio e ucciso sua madre. Tuttavia, proseguendo lungo la strada della vendetta, si ritroverà involontariamente a essere il salvatore delle persone povere e impotenti, tormentate da quegli stessi leader malvagi contro i quali cerca vendetta.

Dev Patel è un attore con due volti. Da un lato, ce lo ricordiamo tutti per il ruolo da “bravo ragazzo” nel film che gli ha dato successo e ha lanciato la sua carriera, The Millionaire, e per altre pellicole toccanti come Lion, che gli è valsa la candidatura all’Oscar. Dall’altro lato, è fin da bambino un praticante di taekwondo, disciplina nella quale è diventato cintura nera nel 2006. E probabilmente c’è proprio questa passione per questa disciplina dietro la scelta di esordire alla regia con un film che si richiama chiaramente al filone delle arti marziali e che, al contempo, è calato nella realtà indiana (che Patel conosce indirettamente, essendo nato sì da immigrati indiani, ma a Londra) e cerca pure di lanciare messaggi più impegnati.
Monkey Man doveva inizialmente approdare direttamente in streaming, in quanto distribuito da Netflix, ma ha fortunatamente suscitato l’interesse di Jordan Peele, un altro di quei nomi tanto chiacchierati e famosi negli ultimi anni, che lo ha quindi distribuito nei cinema tramite la sua casa di produzione Monkeypaw Productions. Ironia della sorte, c’è sempre una scimmia di mezzo.

UN JOHN WICK AL SAPORE DI CURRY


Guardando Monkey Man, il primo paragone che viene in mente è quello con John Wick, la celebre saga di film action che vede protagonista Keanu Reeves. E non è un paragone campato per aria, perché anche l’esordio alla regia di Patel è una storia di vendetta frenetica, sanguinolenta, per molti versi esagerata.
Tuttavia, fin da subito è evidente che il film ha ben altre ambizioni. La storia è ambientata a Yatana, una immaginaria metropoli dell’India nella quale non è difficile vedere la rappresentazione dei reali mali del paese: miseria, fame, accattonaggio, criminalità serpeggiante, prepotenze da parte dei potenti e distribuzione ineguale della ricchezza. Ci sono i ricchi che fanno tutto quello che vogliono, anche le cose peggiori, godendo dell’immunità garantita dalla corruzione delle forze dell’ordine, e i poveracci che devono subire, soffrire, morire senza che i loro diritti siano tutelati. Certo, è uno spaccato superficiale e stereotipato, una rappresentazione di come l’Occidente vede l’India piuttosto che una fotografia dell’India stessa, ma è comunque funzionale a trasmettere allo spettatore la rabbia e il sentimento di rivalsa che animano i personaggi.
A cominciare dal protagonista senza nome (si farà chiamare “Bobby” ma è chiaro che sia uno pseudonimo), che porta avanti la sua personale vendetta contro due antagonisti tutt’altro che improbabili e irrealistici. Uno è un comandante di polizia corrotto, che abusa della sua posizione così come delle persone che ha di fronte; l’altro è un santone che fa leva sulla superstizione e sulla credulità altrui per scopi molto, molto terreni. Due figure che non è raro trovare nell’India di oggi, paese ufficialmente democratico ma di fatto ancora schiavo di tante storture, dove il sistema delle caste di fatto persiste e la religione è, ancor più che in Occidente, uno strumento di potere nelle mani di gente senza scrupoli.

L’INDIA SECONDO PATEL


Il film apre scorci su un mondo assai diverso dal nostro, sui suoi usi e sulle sue storie. Un leitmotiv ricorrente è la figura di Hanuman, vero e proprio dio-scimmia della mitologia induista che oscilla fra iltrickster dispettoso, ad esempio quando divora il sole scambiandolo per un frutto, e l’eroe epico, come nel Ramayana. La maschera della scimmia bianca non è dunque un semplice artifizio estetico o un modo per nascondere l’identità, come poteva avvenire con la maschera nera di Zorro o il costume di Spiderman: c’è un’identificazione fra l’anonimo eroe della pellicola e l’essere mitologico.
Peccato solo che questa identificazione non venga sfruttata di più. Patel indossa la maschera della scimmia sì e no tre volte in tutta la pellicola, rigorosamente sempre negli incontri truccati sul ring clandestino: un po’ poco, se si pensa che tutto il film si intitola Monkey Man e che la maschera poteva evolvere in un effettivo simbolo di rivolta e di riscatto.
Non che il film non tenti di caricare la figura del protagonista di connotazioni sociali. Il combattente solitario è il classico figlio dell’India povera, che ha dovuto imparare fin da bambino a combattere con le unghie e con i denti per ottenere qualcosa, e non è un caso che a circa metà del film, dopo aver riportato durissime ferite, venga soccorso, medicato e addestrato da un’altra comunità di reietti. Si tratta di transgender che venerano la divinità Ardhanarishvara, essere androgino nato dalla fusione tra il dio Shiva e la sua consorte Parvati.
Il loro inserimento nel film permette anche di coprire la quota LGBTQ+ tanto cara alla Hollywood di oggi senza che la cosa risulti forzata, perché si tratta di un elemento della cultura indiana. E permette di mostrare come il protagonista non combatta più solo per sé stesso e per la propria vendetta, ma anche per difendere altri emarginati. Anche se non si capisce perché i transgender avessero bisogno di Patel per insorgere, quando nello scontro finale dimostrano di padr0neggiare le arti marziali bene quanto e anche più di lui.

PREGI…


Come film d’azione e di mazzate, Monkey Man scorre che è una meraviglia. Patel non si perde dietro inutili patemi, lungaggini e spiegoni ma preferisce seminare l’intera pellicola di indizi sul passato del protagonista, al punto che quando arriva finalmente il flashback lo spettatore aveva già messo insieme i vari pezzi del puzzle.
La pellicola vive di due anime. Da una parte, la violenza è esagerata e i morti non si contano. Si combatte dovunque: per strada, in bagno, nei corridoi, in discoteca. Gli scontri sono ben coreografati, anche se a volte la macchina si muove davvero troppo per nascondere certi limiti e in alcuni frangenti la confusione visiva è esasperante. In compenso l’unico inseguimento in auto, anzi in tuk-tuk, che c’è in tutto il film è meno fastidioso e irritante della maggior parte delle sequenze analoghe in altri film del momento.
Dall’altro lato, l’eroe portato in scena da Patel non è un superuomo. Le prende, e tante. Ha una resistenza fuori dal comune, versa più litri di sangue di Sirio il Dragone nelle puntate dei Cavalieri dello Zodiaco, si becca coltellate e pallottole senza lasciarci le penne, ma intanto le prende. Il suo primo tentativo di uccidere Rana Singh, il capo della polizia iper-corrotto, fallisce miseramente più per colpa delle esitazioni e dell’inesperienza del nostro eroe che per reale sfortuna. E anche nello scontro finale viene commessa un’ingenuità non da poco.
Altro pregio del film è la mancanza della storia d’amore. Non che ci sia nulla di male nelle love stories in generale, ma in questo caso avrebbe stonato parecchio, perché non ci sarebbe stato il tempo né tantomeno l’occasione per svilupparla. Fra il protagonista e Sita c’è, forse, una minima tensione erotica, ma viene messa in secondo piano dal fatto che entrambi sono personaggi in cerca di riscatto e vendetta.

… E DIFETTI


Tuttavia, Monkey Man commette anche delle ingenuità non da poco, persino per un film d’azione. Uno dei maggiori difetti, come già detto, è lo scarso sfruttamento della maschera della scimmia, che poteva essere un elemento visivo molto più impattante. Altrettanto poco sfruttato è il personaggio di Alphonso, nonostante la sua scrittura e soprattutto il suo interprete avessero tutte le caratteristiche per farne un ottimo comic relief o quantomeno la spalla del protagonista, il suo Sancho Panza. Viene abbandonato a circa metà del film, ricompare per l’ultimo incontro di Monkey Man sul ring e poi sparisce di nuovo. Davvero un peccato.
Risulta fastidioso anche il finale. Il problema non è “cosa” succede e nemmeno “come”, perché ci sta la scelta di chiudere in quel modo la pellicola, ma i tempi. Si ha come l’impressione che, concluso lo scontro con il boss di fine gioco, la troupe dovesse smontare in fretta e furia il set, calando il sipario e i titoli di coda come una ghigliottina.


L’esordio alla regia di Dev Patel non è male. La scelta di ambientare il film in India e di raccontare una realtà così diversa dalla nostra premia la pellicola, conferendole una certa originalità nel panorama action occidentale, e il ritmo sempre incalzante non annoia. Tuttavia ci sono delle piccole sbavature che si sarebbero potute evitare. Chissà se il film non darà vita a una nuova saga, la versione al curry di John Wick.

 

TITOLO ORIGINALE: Monkey Man
REGIA: Dev Patel
SCENEGGIATURA: Dev Patel, Paul Angunawela, John Collee
INTERPRETI: Dev Patel, Sharlto Copley, Pitobash, Vipin Sharma, Sikandar Kher
DURATA: 113′
ORIGINE: Canada/USA
DISTRIBUZIONE: Universal Pictures
DATA DI USCITA: 05/04/2024

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Divoratore onnivoro di serie televisive e di anime giapponesi, predilige i period drama e le serie storiche, le commedie demenziali e le buone opere di fantascienza, ma ha anche un lato oscuro fatto di trash, guilty pleasures e immondi abomini come Zoo e Salem (la serie che gli ha fatto scoprire questo sito). Si vocifera che fuori dalla redazione di RecenSerie sia una persona seria, un dottore di ricerca e un insegnante di lettere, ma non è stato ancora confermato.

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