Non tutte le serie televisive possono contare su nomi altisonanti, dietro e davanti la macchina da presa, o budget milionari da cui attingere copiosamente anno dopo anno. Sembrerà scontato da dire ma gran parte del successo di uno show ruota proprio attorno a questi due fattori, in assenza dei quali ci si ritrova spesso a commentare disastri seriali di enorme portata.
Non è certo una condizione preponderante, talvolta i disastri capitano perché semplicemente devono capitare, a prescindere dai nomi presenti nei titoli di coda, dall’importanza dell’opera madre – che sia film, libro, fumetto o quant’altro – da cui il telefilm trae ispirazione o dal pozzo di denaro messo a disposizione dalla produzione. Che dire, allora, di 12 Monkeys?
Fin da principio la serie non ha mai avuto chissà quale ambizione e, infatti, come è possibile notare, in particolare dando un’occhiata ai giudizi da noi attribuiti nel corso della precedente annata, il “giallo Save” è il colore dominante. Le eccezioni, come è facile intuire, giungono soprattutto in apertura e chiusura di stagione, i due momenti in cui, tendenzialmente, vengono concentrati i momenti salienti dal punto di vista della progressione diegetica. Anche quest’anno la storia si ripete e, come dimostrano efficacemente le nostre valutazioni a fondo recensione, 12 Monkeys sembra voler ripetere la medesima progressione stagionale.
Questo sesto appuntamento mette in mostra l’intenzione da parte degli autori di voler preparare un universo narrativo solido, concepito con minuzia e attenzione scrupolosa ad ogni singolo particolare; naturalmente l’esito, seppur soddisfacente, risulta proporzionato alle risorse messe a disposizione e quindi, camei importanti a parte, il risultato potrà far storcere il naso agli spettatori seriali più esigenti. Se però accantoniamo per un attimo le nostre infinite aspettative, alimentate da un’industria televisiva che, mai come oggi, riesce a portare sul piccolo schermo dei prodotti che nulla hanno da invidiare alle grandi produzioni cinematografiche, è impossibile non riconoscere, quantomeno, l’impegno profuso dal team autoriale per rendere credibile una storia già viziata in partenza dall’appartenenza a un genere sostanzialmente di nicchia e ad una marcata complessità di fondo dal punto di vista narrativo che finisce con lo scoraggiare lo spettatore più occasionale. Questi due elementi, sommati ad un cast di pseudo-sconosciuti e ad un’eredità pesante da portare avanti in relazione all’opera madre da cui la serie trae ispirazione, portano come risultato degli ascolti molto bassi che, oggettivamente, non arrivano a giustificare il rinnovo automatico per una quarta stagione e che, soggettivamente, portano il recensore a maledire il giorno in cui decise di affrontare questa avventura seriale. Non tanto per la qualità che, ripetiamo, risulta più che soddisfacente per un prodotto Syfy, quanto invece per la paura di assistere ad un quarto arco narrativo che forse non avrebbe ragione d’esistere se, in particolare tra seconda e terza stagione, fosse stato dedicato un minutaggio più contenuto a questioni che si sarebbero potute risolvere in pochi secondi, se non addirittura eliminandole proprio dall’equazione (ricordiamo l’inutile episodio filler “Meltdown” dell’anno scorso).
Qui in “Nature”, invece, la narrazione procede abbastanza spedita, senza troppe digressioni dai due punti cardine della puntata, “spalmati” sulle due storyline che si alternano, quella ambientata nel 1953 e che vede Cole, Cassie e una nostra vecchia conoscenza, l’agente dell’FBI Robert Gale – conosciuto dal protagonista nel ’44 e morto poi nel ’61 durante la fuga dal Mossad (ebbene sì, quanti di voi si ricordavano del Mossad?) in “Fatherland” – sulle tracce del Testimone; e quella nel 2046, con un Deacon sempre più preoccupato per la sua assenza in qualsiasi disegno, mappa, pittura rupestre che riguardi il futuro prossimo venturo, e Jennifer alle prese con un’intensa chiacchierata con il Tempo, di certo non uno dei momenti più alti dedicati al personaggio della Hampshire (“Hi Time!”, seriously?) e con una lunga serie di visioni criptiche su Testimone, Red Forest e quant’altro.
Il primo dei due segmenti citati rappresenta il vero motore narrativo della puntata, non soltanto per la monumentale presenza di Christopher Lloyd, ma soprattutto per la presentazione del Testimone, il figlio di Cassie e Cole, in tutta la sua precoce follia omicida, e naturalmente per le conseguenti reazioni dei due genitori, con da una parte una Cassie che vede in lui una mente traviata e dall’altra Cole, rimasto scioccato dal sangue freddo mostrato dal ragazzino. Un plauso va certamente alla sequenza tra Cassie e il Missionario (così viene accreditato il personaggio di Lloyd), durante la quale, incredibilmente, Amanda Schull riesce a tenere bene il confronto con il mostro sacro posto dinnanzi a lei (o forse in realtà è andata così) dando luogo ad un momento molto toccante che non può non colpire lo spettatore.
Unica pecca, sebbene si configuri come un esito abbastanza prevedibile, è il destino che quasi certamente attenderà Deacon, arrivato l’anno scorso – almeno così pareva – al termine del suo percorso di redenzione, e ora, grazie ai ripetuti due di picche di Cassie e alla paura di fare una brutta fine, a due passi dalla ricaduta nel ruolo di villain, scenario già visto e quindi si spera soltanto un presentimento infondato. L’avvicinamento a Olivia nel finale non è certo un buon segno, soprattutto considerando che Alisen Down è oramai diventata il “Re Mida al contrario” della serie, e un suo avvicinamento al personaggio di Todd Stashwick potrebbe portare alla sua trasformazione in…
Beh, non in oro, ecco.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Causality 3×05 | 0.40 milioni – 0.1 rating |
Nature 3×06 | 0.31 milioni – 0.1 rating |
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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.