In many ways, it’s how I see America today. Can we take the skeleton that the forefathers left us and make a country that serves everyone, not just a select few? I have ideas. And if we can build on those ideas instead of tear them down, I believe that we can make something beautiful. Together. All of us.”
Questo quarto episodio inizia a far affiorare diversi dubbi sulla genuinità della sceneggiatura su cui questa terza stagione sembra essere basata. Nelle precedenti recensioni si era infatti sottolineato, come dato positivo, l’elemento politica internazionale che trovava sbocco all’interno della puntata sia per questioni più o meno rilevanti (Norvegia e Russia), sia per conflitti di rilevanza mondiale (Siria). Eppure, si inizia ad avere la sensazione che le questioni politiche fin qui citate vengano semplicemente inserite sia per dar modo ai personaggi di “riempirsi la bocca” con qualcosa di relativamente attuale, sia per dare fiato agli sceneggiatori in fase di scrittura. Oltre alla semplice menzione, infatti, queste tematiche internazionali non trovano ulteriore spazio e quindi tutto si limita all’apparenza, alla finzione. Designated Survivor sta cercando di giocare in maniera simile ad House Of Cards non avendone l’energia, la capacità, ma soprattutto le carte narrative e di produzione per farlo. Ed il risultato è un disastro su ogni fronte.
La politica internazionale viene utilizzata come uno specchietto per le allodole mentre la trama continua a soffermarsi (con minutaggio a dir poco indecente) su questioni del tutto irrilevanti: Emily e la sua presunta (a quanto pare nemmeno lo è) malattia; Seth e la sua figlia biologica; Mars e sua moglie. Tutti orpelli inutili per una serie che nasceva con altre premesse e che risorgeva, proprio grazie a Netflix, promettendo forse qualcosa di diverso. Niente di più falso, ma forse il vero errore è stato riporre anche solo un briciolo di speranza in questo ritorno.
Emblematica e rappresentativa la questione di Seth e di sua figlia biologica che in tre episodi trova spazio (eccessivo e senza senso), ma parallelamente non produce alcun tipo di sviluppo: i due si vedono, chiacchierano, lui ha dubbi, si rivedono ed il ciclo continua. A che pro continuare a battere questo chiodo? Fortunatamente il rapporto tra i due sembra aver già raggiunto un impasse, quindi magari è possibile (ma difficilmente si realizzerà) che la sottotrama venga troncata ben presto.
L’unica diatriba sociale che continua a mantenere un certo collegamento con le tematiche politiche e razziali della storia è quella tra Aaron e la fidanzata che, sebbene continui ad apparire un estenuante tira e molla senza possibili soluzioni, una certa logica di fondo riesce a mantenerla.
La puntata è smorta, senza vitalità e soprattutto senza une tematica ben costruita e presentata: non basta far menzione di afroamericani, latini e cinesi per rappresentare la tematica del razzismo ed è sciocco per Netflix pensare di poter svolgere in modo così frettoloso un compito che meriterebbe maggiore spazio, maggiore approfondimento e maggiore attenzione. Tutte cose che in Designated Survivor, almeno per quanto visto fino ad ora, sembrano non essere pervenute.
Anche la relazione fedifraga tra la nuova guardia del corpo di Tom ed il nuovo membro del circolo ristretto dei fedelissimi di Kirkman lascia attoniti: cosa dovrebbe rappresentare di preciso? Perché sicuramente non si tratta di un elemento valido ai fini della trama e sicuramente non solleva alcun tipo di interesse. Per forza di cose deve essere quindi considerato come la quota LGBT che lo show cerca di portare in scena, ma c’era davvero bisogno oppure anche questa tematica poteva essere rappresentata in diverso modo ed in un diverso luogo dalla camera da letto (nel quale viene rappresentato giusto per racimolare quel facile consenso a cui tanti show puntano)?
Designated Survivor gioca a fare la star, a fare la serie tv innovativa e geniale, ma in fin dei conti rimane il solito prodotto di bassa lega senza alcun tipo di futuro o base narrativa valida dal quale poter ripartire.
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Conosciuto ai più come Aldo Raine detto L'Apache è vincitore del premio Oscar Luigi Scalfaro e più volte candidato al Golden Goal.
Avrebbe potuto cambiare il Mondo. Avrebbe potuto risollevare le sorti dell'umana stirpe. Avrebbe potuto risanare il debito pubblico. Ha preferito unirsi al team di RecenSerie per dar libero sfogo alle sue frustrazioni. L'unico uomo con la licenza polemica.