Black Mirror 7×03 – Hotel ReverieTEMPO DI LETTURA 6 min

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Black Mirror 7x03 recensioneViviamo in un’epoca in cui la tecnologia cambia ed evolve in maniera esponenziale, a un ritmo forsennato.
Nel giro di pochi decenni siamo passati dai floppy disk, capaci di archiviare poche manciate di dati, alle chiavette USB con una capienza di centinaia di gigabyte. Oppure siamo passati da cellulari grossi e ingombranti, buoni solo a telefonare, a mini-computer tascabili con cui messaggiare, scrivere, giocare, guardare serie tv e film, compiere operazioni bancarie, visionare i menù dei ristoranti, prenotare visite e chi più ne ha più ne metta.
Un settore in cui si fanno costantemente passi da gigante è quello delle cosiddette “intelligenze artificiali”. Programmi come ChatGPT possono, dietro input di un essere umano, non solo creare testi, immagini e suoni, ma anche manipolare quelli già esistenti. E finché si tratta di un innocente divertimento può andare bene, per quanto la recente polemica sull’ondata di immagini in stile Ghibli abbia sollevato il problema del diritto d’autore e della proprietà intellettuale.
Il problema si pone nel momento in cui le AI vengono utilizzate in maniera sempre più massiccia nel processo creativo, quella che dovrebbe essere l’attività umana per eccellenza e che adesso, per la prima volta nella nostra storia, è minacciata dall’ingerenza della macchina. Il livello tecnologico attuale permette già di imitare, seppur con qualche sbavatura, la voce di una persona o di montarne il viso sul corpo di un altro. E questa non è fantascienza, è realtà. Lo dimostrano alcuni recenti casi, come l’uso di un’AI da parte della RAI per replicare la voce del compianto Claudio Capone o la CGI messa in campo in Alien: Romulus per “resuscitare” il defunto Ian Holm.
Sorge spontaneo chiedersi quanto sia eticamente corretto tutto ciò. Perché se già adesso la macchina può imitare con buona approssimazione l’uomo, cosa impedirà in un futuro più o meno prossimo di non scritturare più i doppiatori e gli attori, sostituendoli con versioni artificiali dei grandi del passato? Perché continuare a puntare su giovani talenti quando posso replicare all’infinito le voci di Tonino Accolla o di Ferruccio Amendola? Perché puntare su nuovi attori quando posso avere da qui all’eternità la versione digitale di Timothée Chalamet o di Jennifer Lawrence?

REDREAM


Tutto questo preambolo serviva per introdurre il tema alla base di “Hotel Reverie”, ossia l’uso delle nuove tecnologie nel processo artistico.
“Hotel Reverie” è infatti il titolo di un fittizio film in bianco e nero, palesemente ispirato a Casablanca, che una spregiudicata imprenditrice intende riproporre al pubblico moderno. Ma non con un remake o un reboot, com’è di moda oggi, bensì servendosi di un’avveniristica tecnologia nota come Redream, che permette di ricreare l’intero film originale sotto forma di mondo virtuale nel quale i nuovi attori possono muoversi liberamente sostituendo i precedenti.
(L’esatto funzionamento del Redream non viene spiegato e non sembra nemmeno così credibile, ma poco importa per la storia.)
La produzione sceglie di sostituire l’attore a suo tempo protagonista, il classico belloccio hollywoodiano degli anni ’40 e ’50, ma nessuno si propone. Tranne una persona: l’attrice Brandy Friday. E poco importa che non sia dello stesso sesso del personaggio che vuole interpretare: oggigiorno i remake con cambi di sesso sono all’ordine del giorno!
Quello che né Brandy né la troupe sanno è che il mondo virtuale creato da Redream ha le sue insidie. Il modo in cui l’attrice si muove impatta sul microcosmo dell’Hotel Reverie, alterando la trama e modificando non solo gli eventi, ma anche il carattere della protagonista femminile della pellicola, Dorothy. Ed è proprio intorno a questo nucleo tematico che si costruisce la vicenda, in una forsennata corsa contro il tempo per riportare la trama nei binari “giusti” ed evitare che la mente di Brandy resti imprigionata nel mondo virtuale, con conseguente morte del corpo fisico.

LA CRITICA CHE MANCA


Le premesse di “Hotel Reverie” sono succose e, se Black Mirror fosse ancora la serie antologica britannica precedente l’acquisizione da parte di Netflix, l’episodio forse si sarebbe sviluppato come una feroce critica sull’uso scriteriato dell’AI e della CGI nell’industria audiovisiva. Probabilmente il Charlie Brooker delle origini avrebbe sollevato i grossi dilemmi morali e deontologici legati a una questione tanto delicata.
Purtroppo, da qualche anno Black Mirror fa parte della scuderia Netflix e si è, come dire, “americanizzata”. Quindi via il crudele cinismo delle prime puntate, dentro una morale più accondiscendente e positiva. Via i complessi dilemmi etici delle prime stagioni, dentro un più marcato gusto per il piacere di raccontare una storia e basta.
Di conseguenza, “Hotel Reverie” mette da parte tutti i possibili e intriganti spunti di riflessione che potevano sorgere dalla premessa narrativa e si limita a raccontare una vicenda. Avvincente e con qualche sapiente colpo di scena, per carità, ma pur sempre appiattita sulla dimensione narrativa e mai capace di dar vita a veri spunti di riflessione polemici.
Si perde persino l’occasione di ironizzare sulla moda woke di cambiare sesso ed etnia dei personaggi nei nuovi adattamenti (ricordiamo che l’attrice Brandy Friday prende il posto di quello che nell’originale era un uomo bianco caucasico), ma forse l’errore è nostro nell’aspettarci un po’ di sana autocritica dalla piattaforma che ha sdoganato la moda in questione.

I PERSONAGGI


“Hotel Reverie” ha un cast abbastanza nutrito, rispetto alla media delle puntate di Black Mirror, ma giocoforza l’attenzione è quasi tutta concentrata sulle due protagoniste.
Brandy Friday è la tipica attrice che vorrebbe costruirsi una nuova immagine dopo anni a interpretare la spalla del main character o la femme fatale (e lo showbiz statunitense è pieno di casi del genere). Dorothy, al contrario, è un personaggio virtuale che gradualmente acquisisce coscienza di sé e arriva persino a ottenere alcune memorie della vera attrice che l’ha interpretata, anch’ella vittima delle terribili dinamiche di Hollywood.
Il problema, vuoi per la scrittura tutta schiacciata sulla dimensione romantica e melensa della storia, vuoi per la durata limitata dell’episodio (mai come in questo caso 90 minuti avrebbero fatto comodo), è che anche questi spunti non vengono sviscerati a dovere. Anzi, alla fine della visione si ha l’impressione che Brandy non abbia vissuto nessuna vera crescita, in quanto ciò che è successo nel film non ha ricadute nella sua vita fuori dal Redream.
Lo stesso discorso vale per Dorothy, in quanto i reset ai quali viene sottoposta cancellano la sua evoluzione verso l’acquisizione di una propria coscienza. Come se, per intenderci, alla fine della prima stagione di Westworld avessero resettato la coscienza di Dolores. Peccato, davvero un peccato.

 

THUMBS UP 👍 THUMBS DOWN 👎
  • Si parla di intelligenze artificiali applicate al processo creativo
  • La narrazione è coinvolgente e ha buoni colpi di scena
  • Molti spunti di riflessione abbandonati o nemmeno presi in considerazione
  • Il percorso di crescita di Brandy Friday non è tangibile
  • I reset di Dorothy rendono vano il risveglio della sua cosceinza

 

“Hotel Reverie” non è un brutto episodio, ma resta il rammarico dei tanti spunti polemici e di riflessioni abbandonati per strada oppure nemmeno presi in considerazione. La storia intrattiene, ma dalla creatura di Charlie Brooker ci si aspetta sempre qualcosa in più.

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Divoratore onnivoro di serie televisive e di anime giapponesi, predilige i period drama e le serie storiche, le commedie demenziali e le buone opere di fantascienza, ma ha anche un lato oscuro fatto di trash, guilty pleasures e immondi abomini come Zoo e Salem (la serie che gli ha fatto scoprire questo sito). Si vocifera che fuori dalla redazione di RecenSerie sia una persona seria, un dottore di ricerca e un insegnante di lettere, ma non è stato ancora confermato.

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