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The Bear 4×08 – GreenTEMPO DI LETTURA 5 min

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Recensione 4x08 The BearCon “Green”, The Bear si avvicina al capolinea stagionale portando con sé un’atmosfera sospesa, a metà tra il conto alla rovescia e una malinconica quiete prima della tempesta. La puntata si muove tra incubi, confessioni, piccoli gesti e scelte definitive, ma nonostante l’evidente volontà autoriale di creare un episodio meditativo e denso, il risultato complessivo si rivela diseguale, spezzato tra momenti di sincera profondità e altri che sembrano rimanere un po’ imbrigliati in una poetica che non sempre trova compimento. Un episodio fatto di sguardi lunghi, silenzi carichi e gesti minuscoli che contengono mondi interi. Ma in questa scelta di sottrazione, il racconto rischia di rimanere sospeso: il cuore batte, ma il corpo sembra immobile.

THE BEAR: DOOMSDAY


Fin dal primo minuto, la messa in scena abbandona i binari del realismo: Sydney si ritrova in un sogno surreale, nel quale conduce uno show televisivo mentre attorno infuria una tempesta e il caos si impadronisce dello studio. Una sequenza visivamente ambiziosa, costruita con audacia stilistica, che però rischia di risultare più ornamentale che davvero rivelatoria. È chiaro che si vuole raccontare la pressione che opprime Sydney, la sua ansia per un futuro che non sa più leggere, ma qualcosa si perde nell’esercizio di stile e l’immagine sovrasta il sentimento.
Poi, il risveglio. E con esso, una decisione attesa da troppo tempo: Syd rifiuta l’offerta di Shapiro. È una telefonata breve, senza retorica, ma che chiude una porta con fermezza e restituisce a Syd un po’ di controllo sulla propria traiettoria professionale. La reazione del suo interlocutore – stizzita, passivo-aggressiva, immatura – conferma l’intuizione di fondo, ovvero che si trattava di una falsa opportunità, una via di fuga solo in apparenza solida; tuttavia, la scelta di restare al The Bear, pur assumendo le sembianze di un atto di coraggio e fedeltà, conserva un’ambiguità di fondo, risultando come un gesto che oscilla continuamente tra la fede e l’insicurezza, tra una convinzione profonda e l’incapacità di abbandonare ciò che si conosce, anche quando tutto attorno si scatena la tempesta.
Il tempo scorre, e il Doomsday Clock campeggia come un promemoria visivo dell’urgenza: mancano meno di diciotto ore al fallimento dichiarato del locale. Ma invece del panico, l’episodio sceglie il silenzio, il rallentamento, lo spazio per i dialoghi e per le confessioni. Marcus e Luca lavorano insieme al laboratorio di pasticceria, tra esperimenti floreali e introspezioni silenziose. Il primo, che rinuncia all’incontro con il padre, confessa la sua inquietudine a Luca, il quale, come spesso accade, offre una risposta semplice, comprensiva, priva di giudizio. Il lavoro, secondo lui, è proprio il riflesso del disordine emotivo che attraversano. Una frase che, sebbene d’effetto, sembra suonare già sentita all’interno della serie.
Più interessante risulta il percorso di Tina, ancora impegnata nella sua impresa di “battere il cronometro”. La sequenza con Luca, che invece di offrirle una soluzione concreta le offre uno spostamento di prospettiva, è tra i momenti più riusciti dell’episodio, poiché non risolve il problema in modo diretto ma restituisce umanità alla frustrazione. Ed è proprio in questi scambi minimi che The Bear riesce a raccontare l’intimità del lavoro nel settore della ristorazione meglio di quanto non faccia attraverso metafore o simbolismi più espliciti.

PERSONAGGI IN TRANSITO


Nel frattempo, Carmy si avvicina a uno dei nodi emotivi più spinosi della stagione: la madre. Dopo settimane di silenzio e allontanamento, decide finalmente di portare a Donna una scatola con vecchi album fotografici. Non entra, ma bussa. Una scelta che non rivoluziona la narrazione, ma segnala un primo passo, un’apertura. Il momento è accompagnato da una telefonata con Claire, in cui Carmy si mostra vulnerabile, quasi sereno, pronto a fare i conti con la parte più oscura del suo passato.
Richie intanto prosegue il suo percorso di maturazione emotiva, stavolta attraverso un confronto sincero con Jessica, con cui condivide riflessioni su dolore, perdita e identità in un dialogo fatto di sguardi, pause e parole misurate. La loro dinamica, per quanto costruita con semplicità, riesce a suggerire una connessione autentica, offrendo un’inaspettata leggerezza nel cuore dell’episodio. La sottotrama romantica, pur muovendo i primi passi in modo rapido, introduce una dimensione più intima nel racconto e permette a Richie di mostrare una nuova vulnerabilità che dona al personaggio una sfumatura più ironica e affettuosa.
Un’altra dinamica che merita attenzione è quella tra Natalie e Computer. Il confronto tra loro sulla situazione economica del ristorante, nonostante alcuni segnali positivi, va a toccare quello che è il cuore pulsante della serie, ovvero la domanda implicita se abbia davvero senso continuare a lottare per un progetto che appare sempre più fragile. Natalie, guardando la parete di fotografie, trova la sua risposta nella comunità che quel luogo rappresenta, in quell’insieme di volti e legami che rendono il The Bear qualcosa di più di un semplice locale. È un momento toccante, anche se leggermente retorico, che ripropone un messaggio già più volte ribadito nelle puntate precedenti, con l’idea del ristorante come famiglia; tuttavia, in assenza di un reale sviluppo dei dati economici o di una strategia concreta, questa presa di posizione rischia di restare una dichiarazione di principio più che una scelta costruita su basi solide e reali.

 

THUMBS UP 👍 THUMBS DOWN 👎
  • L’inizio di puntata spiazzante…
  • La chiamata di Syd a Shapiro
  • Tina e Luca sull’ansia e la pressione sul lavoro
  • Richie e Jessica, coppia ben assortita
  • La regia sempre favolosa
  • …ma un po’ fine a se stesso
  • Puntata molto transitoria e dai ritmi sommessi
  • Alcuni momenti un po’ retorici
  • Si accumulano attese ma la tensione resta bassa

 

“Green” esplora con toni meditativi l’attesa prima della fine, tra sogni inquieti, scelte difficili e legami familiari. Si tratta di un episodio di transizione, non privo di qualità, ma che soffre di un’eccessiva rarefazione. I momenti migliori sono quelli che restano più ancorati alla concretezza emotiva dei personaggi – Marcus e Luca, Tina e la pasta, Sydney al capezzale del padre – mentre le ambizioni visive e simboliche dell’incipit e alcune storyline secondarie lasciano un retrogusto d’incompiutezza. Si percepisce il desiderio di raccontare l’attesa, il respiro prima dell’uragano, ma manca quella scintilla che rende memorabile un episodio di calma apparente.

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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.

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