Prosegue il diabolico piano del team sopracciglia folte contro quello delle sfoltite. Mai il character design aveva osato tanto nel definire la malvagità che sta dietro all’andamento prospettico di un sopracciglio. Si sa poi che basta una semplice alzata per decidere i destini di un aperitivo o di un bagno in piscina. In The Lady nulla è lasciato al caso nell’impianto estetico, cifra stilistica di una Del Santo sempre più attenta ai particolari.
Non è passato molto tempo dalla comparsa (dal nulla) di Ludovico e già ci si chiede che ruolo seducente abbiano le sue mani, poste quasi a riequilibrare uno stato confusionale dovuto a una missione di seduzione impossibile: quella di Lona.
Rimanendo col dubbio che possa non reggersi semplicemente in equilibro senza, letteralmente, mettere le mani avanti, nello scambio di battute seguente si ricade nel loop tipico della serie: dialoghi densi di suggestioni che necessitano di altri dialoghi per essere spiegati, non permettendo mai di arrivare al dunque, laddove si voglia concludere qualcosa.
Come spesso capita però, nella vita il senso unico non c’è e qui si vuole suggerire che il solo sembrare di averlo capito permette di avere un vantaggio che altri non hanno. In questo lo spettatore quindi è, e rimarrà, un totale deficiente, cioè mancante ad ogni livello.
L’emblema è il destino di Zora, l’unica che sembrava portare una ventata di cambiamento, vista la provenienza dal basso, precisamente dal sostrato postindustriale dove viveva insieme ai suoi bodyguard, perennemente intrappolati in un luogo così decadente da essere specchio delle istanze finora portate avanti.
Lona, Zora, Zara, quasi tutte sono preda della malvagità. Gli unici a cercare di trovare una qualche forma di redenzione sono proprio loro, burattini di giochi dalle regole cangianti. Emblematico è che uno di loro si interroghi su quanto si dovrà attendere affinché le cose evolvano verso qualcosa. E forse, tra le righe, si riesce ad avere una risposta. Attraverso un tema molto importante e caro alla serie, quello della misura dell’acume, si affianca il parallelismo della mancanza di figure genitoriali forte, fatto rispetto agli anime giapponesi. Anche qui ci sono figlie e figli di una generazione perduta a seguito di una bomba atomica culturale che non ha lasciato cervelli disposti ad ereditare un retaggio oramai vecchio e stantio, incapaci di andare oltre il terrazzo soleggiato su un tratto di mare da cartolina.
Forse solo chiedendo l’aiuto di nuovi dei, guru transgender dai sobri lineamenti apotropaici, riusciranno a direzionarsi in un mondo lucido e decadente.
A completamento di un parco personaggi che fa invidia ad una fabbrica di stampini per aghi, compare lo stranamente troppo deciso Leopoldo, arrivato forse a comandare The Lady per motivi che sinceramente neanche al Tevere in sottofondo ha suscitato il minimo interesse.
In ultimo, da evidenziare come la gara a figure retoriche cominci a trascendere per arrivare al metanarrativo; ci si complimenta per la fantasia nel descrivere il nulla dentro di noi. Si fa il giro e si ricomincia.
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“Sono una Top-Topa, caro mio!”
Siamo tutti cardellini.
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Dopo miliardi di ore passate a vedere cartoni giapponesi e altra robaccia pop anni ’80 americana, la folgorazione arriva con la visione di Twin Peaks. Da allora nulla è stato più lo stesso. La serialità è entrata nella sua vita e, complici anche i supereroi con le loro trame infinite, ora vive solo per assecondare le sue droghe. Per compensare prova a fare l’ingegnere ma è evidentemente un'illusione. Sogna un giorno di produrre, o magari scrivere, qualche serie, per qualche disperata tv via cavo o canale streaming. Segue qualsiasi cosa scriva Sorkin o Kelley ma, per non essere troppo snob, non si nega qualche guilty pleasure ogni tanto.