Siria, 2011. Il giovane Sam Ali (Yahya Mahayni) è costretto ad abbandonare il paese per evitare di essere arrestato, o peggio ucciso, reo di aver pronunciato in pubblico frasi considerate sovversive durante la proposta di matrimonio alla fidanzata Abeer (Dea Liane). Passato un anno dalla fuga di Sam, nel frattempo impiegato in un’azienda d’allevamento di pollame a Beirut, la ragazza viene data in sposa dalla famiglia ad un uomo benestante di nome Ziad, con il quale si traferisce in Belgio. Un giorno Sam viene notato dall’artista euro-americano Jeffrey Godefroi (Koen De Bouw), noto per le sue opere d’arte contemporanea molto controverse e, in cambio di denaro e dei documenti per restare legalmente in Europa, il giovane accetta di farsi tatuare sulla schiena un Visto Schengen per poi essere esposto come opera d’arte vivente nei musei più importanti del mondo. |
Primo film tunisino della storia ad ottenere una candidatura ai Premi Oscar nella categoria Miglior Film Internazionale, The Man Who Sold His Skin è l’ultima fatica della regista e sceneggiatrice Kaouther Ben Hania (prima donna musulmana a concorrere per questo premio) già nota in patria per altre pellicole socialmente e politicamente impegnate quali Le Challat De Tunis, mockumentary incentrato sulla condizione della donna in Tunisia, o il più recente La Bella E Le Bestie, film drammatico ispirato ad un caso di stupro perpetrato nel 2012 da un gruppo di poliziotti e presentato al Festival di Cannes nel 2017. Questa volta la regista prende ispirazione dal lavoro dell’artista belga Wim Delvoye (presente anche all’interno del film) che nel 2006 realizzò un tatuaggio sulla schiena dello svizzero Tim Steiner, rendendolo di fatto un’opera d’arte itinerante esposto in qualità di tela umana, e coglie l’occasione per unire due ambienti sociali molto distanti tra loro, quello dell’arte contemporanea e quello dei rifugiati politici, in particolare quelli siriani, dando vita ad una pellicola senza dubbio unica e d’impatto, ma non per questo esente da difetti.
Do you know what’s worse than being part of the system? It’s being ignored by it.
LA FIRMA DEL PATTO MEFISTOFELICO
Sam: “You want my soul?”
Jeffrey: “I want your back.“
Ben Hania è perfettamente cosciente del peso ideologico sotteso alla moltitudine di dettagli che impreziosiscono il suo racconto, e in particolare la regista sembra concentrarsi maggiormente sullo sfruttamento della condizione di precarietà e sofferenza dei più deboli, quelli nati nella “parte sbagliata del pianeta”, travolti sotto il peso della schiacciante ondata capitalistica del più “fortunato” Occidente, e da quest’ultimo stigmatizzati o strumentalizzati.
Accantonando i toni più assurdi che la storia (vera) porta con sé, la regista sacrifica gran parte della paradossalità intrinseca alla vicenda sottolineandone invece la gravità, attraverso una direzione del racconto più schietta e meno stravagante, sempre conservando un’ironia di fondo basata sull’esaltazione di un più macabro realismo, ma mantenendo la narrazione su binari ben più ermeneutici.
Il nucleo emotivo del film viene così abbandonato in virtù di una satira che vuole porre l’accento sul paradosso di una persona che accetta spontaneamente di mercificarsi per affermare il suo valore intrinseco di essere umano. Un uomo prima evaso di prigione e poi scappato dal suo paese per conquistare la libertà, ritrovatosi infine in una prigione a cinque stelle al pari di un animale tenuto rinchiuso in una gabbia d’oro a 24 carati.
Un vero e proprio patto col diavolo, frutto della disperazione di un uomo messo di fronte ad una realtà difficile da accettare e disposto a tutto pur di riconquistare amore e libertà sottrattegli dal regime, anche andare contro a sua madre e all’intera famiglia, che naturalmente vede nel nuovo “lavoro” di Sam un motivo di disonore non soltanto per il proprio nucleo familiare, ma per la popolazione siriana in generale. Il ragazzo si trova così in mezzo a due fuochi: da una parte le preoccupazioni di una madre, preoccupata che il figlio venga solamente strumentalizzato per via della sua condizione di rifugiato; dall’altra la bramosia di un uomo autoproclamatosi Mefistofele, guidato da false ideologie ed effimeri godimenti materiali, votato al puro e semplice scambio di beni di consumo e troppo apatico per vedere le conseguenze a lungo termine dei suoi comportamenti disdicevoli.
L’aderenza al Sistema, quello occidentale, rivelerà ben presto la sua vera natura: una prigione dalla quale non tutti possono evadere facilmente, se non attraverso l’accettazione del Sistema stesso, unica arma in mano al protagonista per continuare a sognare di raggiungere, un giorno, la piena e assoluta libertà.
SEI UN IDIOTA? NO SIGNORE, SONO UN SOGNATORE
Prendendo in prestito una celebre massima dalla popolare serie Scrubs, l’unica vera colpa ascrivibile al personaggio di Mahayni è forse l’estrema fiducia riposta in un sistema che fin da subito ha mostrato i suoi potenti limiti ideologici. Spinto dalla disperazione, è facile comprendere le ragioni alla base della scelta disperata di Sam; è altresì facile comprendere quanto poco sia disposto il protagonista a sottostare alle regole da lui stesso accettate di buon grado.
Come prevedibile, infatti, Sam dovrà fin da subito fronteggiare le conseguenze scaturite dalla sua nuova condizione di “opera d’arte vivente”, che per contratto non gli permette di relazionarsi con i visitatori del museo ne tanto meno di scattare foto insieme a loro. Ben presto da opera d’arte il protagonista finirà per diventare una pura e semplice attrazione, al pari di un animale allo zoo, spogliato così della sua dignità e del suo status di essere umano. Aspetto che può essere ravvisato anche nelle fasi che precedono la mostra, che lo vedono trattato al pari di un oggetto e sballottato da una parte all’altra come se nessuno si rendesse conto di avere a che fare con una persona in carne ed ossa. Il rifiuto del fotografo alla sua richiesta di mandare una foto alla madre, pur trattandosi di foto digitali e quindi destinate, per la maggior parte, alla cancellazione, sarà soltanto il primo dei segnali di disumanità a lui indirizzati dallo staff di Godefroi, fatta eccezione per il personaggio di Soraya (Monica Bellucci), che seppur in maniera molto distaccata, sembra fin da subito l’unica persona con un minimo (ma proprio il minimo sindacale) di umanità.
Così, mentre la schiena di Sam risulta apparentemente al centro dell’attenzione, a farsi carico del peso emotivo del film è il viso di Yahya Mahayni, in grado di mostrare un ampio spettro di emozioni che vanno dalla felicità al terrore, dalla rabbia alla più totale apatia, in un percorso di rivendicazione della sua identità che si nasconde dietro la cortina di fumo innalzata dal pensiero occidentale tra paure e contraddizioni oramai radicate a fondo all’interno della società. Il finale, di cui non tratteremo per evitare spoiler, probabilmente verrà considerato dai più un po’ “stonato” rispetto a quanto raccontato in precedenza, quasi un tradimento rispetto al tono medio della narrazione, ma in realtà rappresenta la soluzione perfetta al dilemma ideologico di Sam, fin dall’inizio alla ricerca di quel pizzico di fortuna in grado di cambiare tutto.
The Man Who Sold His Skin è certamente un ottima pellicola, impreziosita da una regia e una fotografia che in più di un’occasione vi stupiranno e da un’ottima interpretazione dei suoi protagonisti. Battuto nella corsa all’Oscar dal rivale Another Round, il film merita comunque di essere visto, essendo anche un’opera leggera nonostante l’alone drammatico che permea la narrazione nei suoi 104 minuti di girato.
Qualcuno sicuramente storcerà il naso sul finale, ma d’altronde non si può essere sempre d’accordo su tutto.
TITOLO ORIGINALE: الرجل الذي باع ظهره (ar-rajul allaḏī bāʿa ẓahrihu) REGIA: Kaouther Ben Hania SCENEGGIATURA: Kaouther Ben Hania INTERPRETI: Yahya Mahayni, Dea Liane, Koen De Bouw, Monica Bellucci, Saad Lostan, Darina Al Joundi, Jan Dahdouh, Christian Vadim, Wim Delvoye DISTRIBUZIONE: Film i Väst DURATA: 104′ ORIGINE: TUNISIA, 2020 DATA DI USCITA: 04/09/2020 |