The Apprentice recensione film
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The Apprentice – Alle Origini Di Trump

Un film sufficiente, principalmente tenuto a galla da degli ottimi Sebastian Stan e Jeremy Strong e da un ritmo incalzante. Soffre però di una certa superficialità e da una gestione temporale inefficiente che limita (e non poco) il suo potenziale.

3.5
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Negli anni settanta un giovane Donald Trump viene preso sotto l’ala protettrice dell’avvocato Roy Cohn, che gli insegnerà segreti e regole che governano lo spietato mondo degli affari, sui quali Trump baserà la sua carriera e visione del mondo.

Come anche spiegato durante l’episodio del podcast dedicato alle uscite seriali e cinematografiche di ottobre, il film sulle “origini del villain” chiamato Donald Trump non è stato solamente programmato con cura per uscire in coincidenza con le elezioni americane (che chiaramente non ha influenzato in alcun modo), ma è anche stato scritto basandosi su diverse fonti che sono state poi messe insieme da Gabriel Sherman, un giornalista specializzato in analisi politiche, che ha chiaramente una predilezione per un certo tipo di personaggi repubblicani, e sceneggiatore della pellicola.
Sherman è un nome magari non così noto (specialmente oltreoceano) ma ha nel suo curriculum tutta una serie di articoli sul defunto Roger Ailes pubblicati sul New York magazine, seguiti poi dalla biografia The Loudest Voice in the Room che è stata trasposta su Showtime nell’ottima miniserie The Loudest Voice sceneggiata dallo stesso Sherman ed interpretata da un irriconoscibile Russel Crowe.
Praticamente un mezzo sinonimo di garanzia vista la qualità sciorinata in precedenza, però bisogna sottolineare il “mezzo” perché, sfortunatamente, questa pellicola biografica su Donald Trump è anni luce distante dalla profondità che si avrebbe voluto avere. E il risultato è sfortunatamente troppo didascalico per garantire al film qualsiasi cosa che vada oltre la sufficienza.

The first rule is: attack, attack, attack.

VOLUTAMENTE SUPERFICIALE


Una delle critiche che si può muovere al film è quello di avere un “prima” e un “dopo” ma di non aver fondamentalmente un “mentre”. In altre parole:

  • la parte iniziale del film ha lo scopo di mostrare come fosse Donald Trump prima di incontrare il suo avvocato (e mentore) Roy Cohn, ovvero agli inizi della sua carriera da imprenditore e ancora sotto la forte influenza del padre;
  • nella seconda ora di girato invece si ha già di fronte una versione “up to date” di Trump, molto più vicina a come lo si conosce ora e frutto di un’esposizione costante a Cohn e anche di una certa fortuna immobiliare.

Tutto sarebbe perfetto se non fosse che, senza troppi scrupoli, il regista Ali Abbasi e Sherman non affrontano tutto ciò che sta nel mezzo tra queste due fasi del personaggio, cioè tutto quello che lo spettatore avrebbe in realtà voglia di vedere.
Se l’incontro fortuito con Roy Cohn svolta la vita di Donald, a parte mostrare una vittoria legale (tra l’altro avvenuta fuori dalle aule del tribunale) non è mostrato praticamente niente di come Cohn influenzi Trump e di come l’attuale POTUS sia cambiato completamente nel suo atteggiamento. Circa a metà pellicola, Abbasi e Sherman optano infatti per un time-skip di almeno 3 anni, saltando proprio il momento cruciale che lo spettatore si attendeva di vedere; scelta che finisce per inficiare pesantemente nel percorso che i due vogliono far fare allo spettatore.

Rule two: admit nothing, deny everything.

THROWBACK DONALD & ROY


Se non si ha la possibilità di assistere passo dopo passo all’evoluzione del giovane Donald, almeno si può (e si deve) riconoscere la qualità visiva messa in piedi da Abbasi che gioca benissimo con la filigrana della pellicola riproponendo vibes degli anni ’70-’80 e gestendo tutto sommato più che bene il ritmo della pellicola che non sembra in alcun modo durare due ore (cosa che in generale è un buon segnale).
A supportare Abbasi ci sono ovviamente i due pilastri del film: Sebastian Stan e Jeremy Strong, entrambi eccelsi nella loro recitazione anche se va riconosciuto a Strong di essersi calato decisamente nel ruolo se non altro per l’interpretazione più cruda che traspare, rispetto a quella di Stan che, seppur ottimo, rimane parzialmente costipato nella plastica facciale di Trump che lo limita in qualche modo. E l’interpretazione di Strong come Roy Cohn è talmente buona da portare il pubblico a desiderare più minutaggio di un uomo che lo stesso Strong ha definito come “uno dei peggiori esseri umani del 21° secolo” in una recente intervista, qui parzialmente umanizzato sia in funzione di un contesto sociale discriminatorio (soprattutto per gli omosessuali e malati di AIDS negli anni ’80) che in relazione a Trump, in una sorta di giovane padawan che si ribella al maestro Jedi.
Più minutaggio e un maggiore focus nella relazione tra questi due character avrebbe giovato alla pellicola, vittima invece proprio di questo focus aggiuntivo sull’influenza di uno sull’altro e sulla successiva scalata al potere di Trump.

Rule three: no matter what happens, you claim victory and never admit defeat.


Non farà sicuramente male guardare questo film in quanto godibile e ben recitato, però non può essere considerato al di sopra di un film sufficiente che svolge il compitino dimenticandosi di approfondire proprio la parte centrale di quella relazione che il pubblico avrebbe voluto vedere.

 

TITOLO ORIGINALE: The Apprentice
REGIA: Ali Abbasi
SCENEGGIATURA: Gabriel Sherman
INTERPRETI: Sebastian Stan, Jeremy Strong, Maria Bakalova, Martin Donovan
DISTRIBUZIONE: Cinema
DURATA: 123′
ORIGINE: USA, 2024
DATA DI USCITA: 17/10/2024

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Fondatore di Recenserie sin dalla sua fondazione, si dice che la sua età sia compresa tra i 29 ed i 39 anni. È una figura losca che va in giro con la maschera dei Bloody Beetroots, non crede nella democrazia, odia Instagram, non tollera le virgole fuori posto e adora il prosciutto crudo ed il grana. Spesso vomita quando è ubriaco.

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