Gli anni ’70 sono stati anni di ribellione, libertà, lotte sociali e politiche. Capelli cotonati e jeans a zampa diventano simboli di un decennio che verrà per sempre ricordato per l’intensità delle sue contestazioni, scaturite da una netta contrapposizione generazionale che, nella maggior parte dei casi, ha sostituito lo scontro al dialogo. Sesso e droga entrano a far parte, sempre in misura maggiore, dello stile di vita dei più giovani e la musica compie un significativo avanzamento dal punto di vista creativo, segnando una svolta talmente rilevante da non avere eguali ancora oggi. Non è un caso, dunque, che il piccolo schermo torni ad affrontare le trasformazioni musicali avvenute in quegli anni, ripartendo laddove Vynil ha fallito, falciato prematuramente da uno spietatissimo Mietitore Seriale. Ed è proprio da questa inaspettata cancellazione che parte la nostra riflessione. In questa recensione, infatti, nel tentativo di non ripetere quanto già detto nelle precedenti a proposito del gioiellino seriale targato Buz Luhrmann, ci concentreremo, almeno inizialmente, su un confronto che appare quasi “dovuto” in funzione del breve lasso di tempo intercorso dalla messa in onda dei due show: quello, appunto, con Vynil, serie televisiva statunitense creata da Mick Jagger, Martin Scorsese, Rich Cohen e Terence Winter. In realtà, essendo noi detrattori della comparazione, a maggior ragione tra show evidentemente diversi e quindi paragonabili solo dal punto di vista contestuale, quello che si cerca di sottolineare qui è, appunto, l’inconcludenza di alcuni scritti pubblicati online che proporrebbero un parallelo tra le due serie ponendosi come obiettivo finale un giudizio di valore che, in conclusione, non ha ragione d’esistere.
“Perché The Get Down è meglio diverso da Vynil?”
Al fine di sottolineare le differenze, partiamo con l’esaminare gli elementi di consonanza tra le due opere, così da riuscire a individuare con maggior precisione laddove narrazione, stile, recitazione e quant’altro subiscono una significativa sterzata in direzione di una diversa impostazione televisiva.
1. La lunghezza del pilot: sebbene vi sia una discrepanza di circa venti minuti (noi stessi lamentammo l’eccessiva durata dell’episodio pilota diretto da Scorsese) entrambe le serie hanno puntato su un episodio introduttivo dal minutaggio maggiorato rispetto ai successivi. Ed esattamente allo stesso modo, le due serie hanno puntato maggiormente sulla caratterizzazione dei loro protagonisti, solleticando solo nei minuti finali la curiosità dello spettatore, in Vynil sfruttando la componente thriller, qui posizionando il fulcro della narrazione sulla storia d’amore tra i due protagonisti. Due scelte che rispecchiano fedelmente l’impostazione dei due direttori d’orchestra. Ciò che in The Get Down ha finito per ripagare, in termini di interesse spettatoriale, è stata sicuramente la scelta di virare verso un’impostazione televisiva di stampo prettamente generalista, optando per la lovestory come centro narrativo e puntando su colori abbaglianti, costumi sgargianti e scene musicali ben coreografate piuttosto che su un’atmosfera più cupa, che meglio si adattava alla parabola discendente di Richie Finestra.
2. Il contesto socio-culturale: come detto in apertura di recensione, il contesto entro il quale i nostri personaggi si muovono rappresenta l’elemento più accattivante dello show. Gli anni ’70 messi in scena da Luhrmann appaiono però radicalmente diversi da quelli rappresentati nella serie HBO: tra le macerie di un quartiere, il Bronx, lasciato a se stesso da una classe politica poco incline a rispondere al grido d’aiuto lanciato dai suoi residenti, incendi dolosi e criminalità organizzata condividono lo spazio scenico con la luminosità sfavillante degli ambienti di lusso di New York, il tutto impreziosito dall’accostamento di moderne rappresentazioni digitali a immagini di tipo pellicolare. Salvo alcuni anacronismi musicali, utilizzati consapevolmente dal regista, la ricostruzione del periodo storico appare certamente dettagliata ma, riprendendo nuovamente il confronto con la serie HBO, appare anche stilisticamente opposta. Al manierismo di Scorsese, Lurhmann risponde con una messa in scena orientata all’estetizzazione del racconto, grazie alla quale il regista riesce a far presa sullo spettatore, facendogli dimenticare per un attimo la scontatezza delle vicende narrate e l’artificiosità di alcuni dialoghi.
3. Nascita di un genere musicale: uno degli elementi comuni ad entrambi gli show è, naturalmente, la premessa iniziale: raccontare la nascita di un genere musicale. Da una parte rock e punk, dall’altra hip-hop e disco music (seppure queste si affaccino anche nello show della HBO). Tralasciando per un attimo le vicende relative ai personaggi, risulta evidente quanto il secondo contesto musicale risulti molto più accattivante rispetto al primo – sempre focalizzandoci su un target spettatoriale di tipo generalista – a maggior ragione se infarcito di struggenti storie d’amore adolescenziali, rap battle e sequenze musicali coreografate. Sebbene alcuni abbiano criticato la creatura di Scorsese per una presunta ripetitività nelle tematiche trattate (produttori discografici tra droghe e violenza domestica, con le tasche piene ma frustrati e infelici), non è certo l’originalità il punto forte di The Get Down, salvato, appunto, soltanto dalla scelta di un contesto musicale più facile da rappresentare in chiave “positiva”. Fumetto e arte figurativa, elementi che spesso trovano spazio all’interno della serie, contribuiscono inoltre a “colorare” una New York che altrimenti risulterebbe grigia e cupa, stretta nella morsa del crimine organizzato e della crescente disoccupazione.
4. Cast di qualità: altro aspetto simile tra le due opere è la scelta di un cast tra cui campeggiano grandi nomi della serialità televisiva – e non solo – in grado, con le loro performance, di conferire ulteriore valore a un prodotto già di qualità. La differenza sostanziale, altro elemento significativo se visto in relazione all’ottima accoglienza della creatura di Luhrmann da parte della critica, è l’età dei protagonisti: contro il taglio più “adulto” della serie HBO, Netflix risponde con una sorta di “teen drama” in salsa hip-hop, capace di far presa non solo su un pubblico adulto, ma anche – e in misura maggiore – su una platea di giovanissimi, cresciuti a pane e talent e per questo maggiormente inclini ad abbandonarsi alle fantasie musicali più sfrenate.
5. La mano del regista: a chiudere questo breve confronto non poteva mancare l’apporto dato dal regista alla propria creatura. L’eccessivo manierismo di Scorsese, citato poco sopra, ha finito per condannare la sua opera, penalizzata da un’ingiusto disinteresse spettatoriale. Tralasciando l’elemento scontatezza, difetto che al massimo potrebbe essere riscontrato nell’opera di Luhrmann, a sancire definitivamente il vincitore è stata proprio la mano del direttore d’orchestra: il regista australiano, grazie al consueto entusiasmo mostrato nelle sue opere e al sapiente utilizzo di artifizi visivi in grado di provocare nella mente dello spettatore un vero e proprio piacere masturbatorio, è riuscito a mettere in scena con maestria tutto ciò che il pubblico si aspetterebbe da una serie sulla nascita della musica hip-hop. Il tutto entro una cornice drammaturgica che in più di un’occasione ricorda quasi una tragedia shakespeariana, tra barocchismi nella regia e personaggi fortemente stereotipati, senza mai abbandonare il fulcro della narrazione, costituito da Zeke e dalle sue rime.
Black man in a white world
Entrando nello specifico, questo quinto episodio risulta costruito sulla logica del parallelismo, esaltato da una continua alternanza delle diverse storyline. In apertura abbiamo la travagliata creazione della canzone per Mylene intervallata dallo smascheramento del contrabbandiere di bootleg; poco dopo il contrasto tra le due scelte di vita compiute da Zeke e Shaolin per poter continuare a sopravvivere nel Bronx: da una parte onestà e nessuna garanzia di guadagno, dall’altra soldi facili e nessuna garanzia di rimanere incolume fino al giorno successivo; infine l’ultimo parallelo riguarda il conflitto che ha portato – e certamente porterà ancora – il maggior numero di problemi a Books, e facilmente riassumibile in tre parole: Mylene vs Shaolin. La classica scelta tra amore e amicizia porterebbe in questa precisa occasione a una lunga serie di implicazioni, innescando così una reazione a catena da cui Zeke uscirebbe certamente ferito, a prescindere dalla scelta che egli deciderà di compiere. L’intento del protagonista sarà naturalmente quello di intraprendere la via della legalità, continuare a fare musica in compagnia della sua crew e conquistare definitivamente il cuore della sua bella, tre obiettivi a prima vista facilmente ottenibili, ma che sicuramente, trattandosi in fin dei conti di un teen drama mascherato neanche troppo bene dai continui rimandi alla cultura pop degli anni ’70, risulteranno inconciliabili e dunque porteranno Zeke a dover compiere una scelta. Una scelta che noi, in virtù dei diversi flashforward, sappiamo già essere orientata verso la musica, ma forse a discapito delle due persone che attualmente sembrano costituire gli unici punti di riferimento del futuro MC.
Purtroppo la difficile scelta tra amicizia e amore mette in evidenza anche il difetto più grande riscontrato in questa serie: la ripetitività di alcune dinamiche. Un difetto che però sembra essersi attenuato proprio in questo quinto episodio, aprendo la narrazione ad avvenimenti in qualche modo sconvolgenti rispetto a quanto visto finora, tanto per citarne un paio, la verità sul passato sconvolgente del padre di Mylene e l’incontro tra Dizzee e Thor, che palesemente porterà il giovane graffittaro a mettere in discussione il suo orientamento sessuale.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Forget Safety, Be Notorious 1×04 | ND milioni – ND rating |
You Have Wings, Learn To Fly 1×05 | ND milioni – ND rating |
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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.