“Of all the words of mice and men, the saddest are these: it might have been.” (Of Mice And Men, Steinbeck)
A cospetto di una stagione che si presentava al pubblico con delle aspettative molto basse, Charlie Brooker confeziona invece un altro episodio degno di questo nome. Come al solito si tende ad esagerare – sia in un senso, sia in un altro – ed ecco quindi che “Eulogy” viene indicato come uno dei migliori episodi di Black Mirror di sempre. Un po’ per provocazione, un po’ per partito preso, probabilmente.
Resta il fatto che la scrittura sembra aver attinto a quanto di buono questo show ha già mostrato (“The Entire History Of You”, “Be Right Back”, “White Christmas”), lavorando in simbiosi con un lato prettamente più romanticheggiante (come già mostrato in “Hang The DJ” o “San Junipero”, senza il melenso finale felice). Il risultato è “Eulogy”, una puntata che è il fantomatico pugno nello stomaco a cui Black Mirror aveva disabituato il proprio pubblico: tecnologia e dramma lavorano a stretto legame per poco meno di 50 minuti, Paul Giamatti si prende la scena, complice anche la sua limitatezza tecnologica e il tutto viene amplificato da una storia che ha finalmente toccato le corde giuste.
LA SENSAZIONE DI UN DARK TWIST CHE NON ARRIVA
Per buona parte della puntata, fino a quando sopraggiunge la rivelazione della gravidanza, si ha la percezione di trovarsi di fronte ad uno degli episodi di Black Mirror che cela un dark twist diretto come un montante al volto del pubblico. Phillip (il personaggio interpretato da Giamatti) sembra riservare molto odio verso Carol, la sua ex fidanzata recentemente morta. Forse troppo: foto strappate, frasi ingiuriose, un doppiopesismo su svariati aspetti, l’umiliazione post proposta di matrimonio.
Il dark twist resta nell’aria, ma minuto dopo minuto si affievolisce il pensiero, lasciando spazio alla costruzione, invece, di un colpo di scena ben più drammatico e votato ad un auto sabotaggio quasi involontario.
IL PASSATO TORNA SEMPRE
Il twist finale di “Eulogy” colpisce non solo attraverso l’effetto drammatico o con lo shock narrativo, ma con la crudele delicatezza del non detto. Non è l’azione a determinare la tragedia, bensì la non-azione: una lettera che rimane chiusa, una verità che resta sconosciuta. In quel gesto mancato si consuma un destino che, per quanto ordinario, risulta devastante. Non c’è morte, non c’è frattura visibile. Solo una vita che avrebbe potuto essere diversa e che, invece, si incanala nel solco dell’inconsapevolezza e del rimpianto.
Questo tipo di finale si inserisce in una lunga tradizione narrativa e filosofica che riflette sul peso delle occasioni perdute: Persuasione di Jane Austen, dove una lettera d’amore arriva in tempo per rimediare agli errori del passato; La La Land, in cui due amanti si scambiano uno sguardo che racchiude l’intera esistenza che avrebbero potuto condividere; Eternal Sunshine of the Spotless Mind, dove i protagonisti si sono dimenticati, ma si riscelgono pur non essendo a conoscenza del loro passato. “Eulogy”, però, si spinge oltre: priva il suo protagonista persino della consapevolezza della perdita, rendendolo prigioniero di una vita incompiuta senza nemmeno la consolazione del perché.
La sua vicenda ricorda l’immagine offerta da Sylvia Plath ne La campana di vetro, quando paragona la vita a un albero di fichi, pieno di frutti rappresentanti strade, scelte, possibilità. Ogni frutto rappresentava una possibilità desiderata, ogni ramo una strada che si sarebbe potuta percorrere, ma il tempo passa, e i frutti cominciano a marcire. Il protagonista di Eulogy non coglie nulla: resta immobile, e osserva le alternative sfiorire davanti a sé.
“Philly, I have to tell you something. I couldn’t say earlier. I froze. I’m sorry. Please… please don’t hate me. That day I rang and got Emma, I was so mad.
I had a one-night stand with someone in the orchestra here. It didn’t mean anything, and I’m sorry. I’ve missed my period. I don’t know what to do. I love you, and I want us to work, but I don’t know how you’ll feel. I think I wanna keep the baby. I don’t know.
But could you live with that if I did? If you still wanna talk, meet me tomorrow afternoon at the stage door, after the matinee. I’ll understand if you never wanna see me again.
I hope you do.
I love you, Carol.”
PERDERSI COMPLETAMENTE
Eulogy non è solo una riflessione sulla tecnologia e sull’identità, ma un ammonimento universale: a volte basta non aprire una lettera per perdersi completamente. E la tragedia più grande non è la perdita dell’altro, ma quella di sé stessi. Phillip dopo il distacco da Carol si abbandona all’alcool e precipita in un dirupo di disperazione, solitudine e depressione da cui esce solo dopo svariati anni per sua stessa ammissione. La profondità della storia non riesce a coprire del tutto il gigantesco deus ex machina su cui il colpo di scena finale si basa, tuttavia.
Dopo averla rivista attraverso la ricreazione del ricordo, Phillip non sembra minimamente rammentarsi della lettera, lo ribadisce a gran voce, ma dopo una manciata di secondi ha una epifania e il pezzo di carta magicamente compare all’interno della scatola.
Ora, se si fosse trattato di qualsiasi altro tassello riguardo la storia di Phillip e Carol, esserselo dimenticato poteva anche passare in secondo piano. Ma visto il peso specifico della lettera e del suo contenuto appare veramente insolita una costruzione narrativa di questo tipo dove Phillip prima non se ne ricorda, per poi tornare sui propri passi… senza però avere la benché minima idea del contenuto. Comprensibile servisse una base per il twist finale, ma diciamo che la sua costruzione è quanto mai fragile.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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“Eulogy” resta uno dei migliori episodi di Black Mirror delle ultime stagioni: una storia dettata alla rappresentazione dell’oblio, della mancanza di risposte, della solitudine e del profondo senso di abbandono di due persone che, inconsapevolmente, si sono allontanate sperando che l’altra facesse ritorno. Una storia struggente che ha qualche piccola crepa a livello narrativo, ma ben coperta dal dramma e da un ottimo Paul Giamatti.
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Conosciuto ai più come Aldo Raine detto L'Apache è vincitore del premio Oscar Luigi Scalfaro e più volte candidato al Golden Goal.
Avrebbe potuto cambiare il Mondo. Avrebbe potuto risollevare le sorti dell'umana stirpe. Avrebbe potuto risanare il debito pubblico. Ha preferito unirsi al team di RecenSerie per dar libero sfogo alle sue frustrazioni. L'unico uomo con la licenza polemica.