Il cliffhanger è ormai abusato dai prodotti Netflix. La nuova major (Netflix è ormai a tutti gli effetti una major cinematografica) ai primi tempi incuriosiva per i prodotti proposti, visti come la novità, un nuovo modo di fare serialità andando oltre le rigide regole imposte dal piccolo schermo. Oggi, nel 2021, quella libertà garantita dalla “N rossa” è diventata un nuovo canovaccio. Un marchio di fabbrica che il prodotto su questa determinata piattaforma deve seguire. Così, mentre i competitor imparano e sperimentano, ottenendo risultanti pregevoli, Netflix garantisce un prodotto prevedibile e riconoscibile a vista d’occhio.
Si parlava di cliffhanger, poiché la prima parte, conclusasi con il “Capitolo 5” offriva un finale aperto clamoroso, ponendo Assane in una situazione inedita. Il nuovo Lupin non aveva il controllo di ciò che stava accadendo, suo figlio era stato rapito, e per di più la sua identità segreta era stata rivelata. Per certi versi presenta anche un’analogia con un’altra serie Netflix alquanto mediocre come La Casa de Papel. Così come nella serie spagnola, davanti a un bivio così decisivo si compiono scelte che rischiano di diventare fondamentali per il giudizio dell’intera opera, e che rischiano ora di compromettere tutto ciò che di buono è stato costruito nei primi sei episodi.
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Dopo la morte coraggiosissima del piccolo Raoul si stentava a credere ad una direzione così coraggiosa data allo show da George Kay. Infatti l’autore sceglie la via più comoda e, piuttosto che raccontare un Lupin in una situazione difficile e passivo rispetto agli eventi, inserisce un comodissimo deus ex-machina e riporta tutto in carreggiata. A conti fatti, il grande cliffhanger si risolve così, in una puntata e mezza, piena di errori grossolani di una polizia allo sbando.
Si parte dal salvataggio di Raoul da parte di Guedira, passando per i poliziotti che non credono a mezza parola di Assane ma lo lasciano andare in bagno senza manette (al limite del comico). Leonard spara mentre la polizia ammanetta Assane e nessuno se ne accorge. Però l’apice lo tocca il commissario Dumont, che sa di avere tra le mani il più prezioso degli ostaggi, e lo perde per colpa di un banale scherzo telefonico.
La questione è che probabilmente non si è ancora davanti a uno snodo cruciale, ma le esigenze distributive di porre un finale aperto verso la fine del quinto episodio aveva creato aspettative troppo alte nello spettatore. In fin dei conti, fosse stata questa la main quest ci si troverebbe di fronte ad un finale. Assane riabbraccia suo figlio, con tanto di Johnny Nash in sottofondo. Purtroppo questa strategia è diventata ormai prevedibile, e rischia di rendere poco appetibile anche un prodotto ben confezionato dal punto di vista tecnico come Lupin.
NON È FINITA QUI, LUPIN!
Non è però tutto da buttare. Certo, la sceneggiatura labile non è il punto di forza di Lupin, che ha sempre però sopperito con un’ottima regia e una spettacolarizzazione delle azioni dell’infallibile protagonista. La recitazione di Omar Sy regge in ogni caso lo show, ben coadiuvato da tutti i personaggi secondari. In particolare il malvagio Pellegrini risulta sempre un personaggio sgradevole, come giusto che sia.
La colonna sonora è ormai un segno indelebile della serie francese, così come la fotografia risulta curata come sempre. Per fortuna ci pensa Claire a portare avanti anche la storia. La sua sotto-trama molto solida, che costruisce alle spalle delle arrampicate sugli specchi di Assane Diop. La scena finale è maestrale, e incuriosisce (Netflix, ce l’hai fatta di nuovo) verso le ultime tre puntate, in attesa di un primo vero fallimento del protagonista.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Davanti alla possibilità di fare il salto di qualità Lupin fallisce miseramente, come un poliziotto che affida un bambino a un uomo senza vederlo.
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Giovane musicista e cineasta famoso tra le pareti di casa sua. Si sta addestrando nell'uso della Forza, ma in realtà gli basterebbe spostare un vaso come Massimo Troisi. Se volete farlo contento regalategli dei Lego, se volete farlo arrabbiare toccategli Sergio Leone. Inizia a recensire per dare sfogo alla sua valvola di critico, anche se nessuno glielo aveva chiesto.