L’ultimo episodio de Il Mostro chiude il cerchio attorno alla (non) tanto discussa “pista sarda”, portando a compimento un gran lavoro narrativo che Stefano Sollima e Leonardo Fasoli avevano impostato sin dal principio: ogni episodio dedicato a un protagonista, ogni storia un tassello di un mosaico più grande e disturbante.
È una chiusura coerente, potente e a tratti agghiacciante che non solo approfondisce la psicologia dei personaggi coinvolti ma alza ulteriormente l’asticella rispetto ai capitoli precedenti.
E, come nelle migliori produzioni firmate Sollima, la tensione non nasce dal sangue mostrato, ma da quello non detto, dalle ombre che restano sospese fino alla fine. Anche se c’è comunque del sangue.
LA PSICOLOGIA DI SALVATORE VINCI
Questo ultimo capitolo eleva ulteriormente la struttura narrativa già apprezzata nei precedenti episodi. Se prima il focus era stato su Francesco Vinci e sulla genesi della pista sarda, ora la sceneggiatura vira verso il fratello Salvatore, interpretato da un eccellente e inquietantissimo Valentino Mannias. È attraverso di lui che Il Mostro trova la sua dimensione più oscura, quella che oltrepassa ulteriormente i confini del “semplice racconto di cronaca” (che comunque non è affatto semplice) per trasformarsi in un ritratto disturbante della devianza umana. Sollima e Fasoli, ancora una volta, dimostrano una padronanza assoluta della costruzione psicologica dei propri personaggi, scandagliandone le ossessioni e le perversioni con una freddezza quasi documentaristica.
La grande trovata dell’episodio è quella che in gergo fumettistico si definisce “ret-con”: la riscrittura retroattiva di eventi già noti, arricchiti da nuovi elementi che cambiano completamente la percezione dello spettatore. È esattamente ciò che avviene con la storia di Salvatore Vinci, raccontata da un nuovo punto di vista che ne ribalta il significato e ne svela dettagli agghiaccianti e anche dei risvolti omosessuali inaspettati sia per lui che per Stefano Mele. Tra questi, spicca il particolare più disturbante: l’abitudine dell’uomo di far prostituire la propria moglie per poi osservarla da lontano, in una forma di voyeurismo malato che diventa la chiave interpretativa del suo intero comportamento. È un momento che definisce l’essenza della serie — la rappresentazione di una morbosità che non ha bisogno di essere esplicitata perché vive nelle allusioni, nei gesti, nei silenzi. Ed è anche il motivo per cui questa chiusura funziona: Il Mostro non cerca di spiegare, ma di far percepire.
I LIMITI DELL’ULTIMO EPISODIO
Pur essendo un episodio notevole, come la serie in generale, non è esente da difetti e i difetti sono gli stessi riscontrati in precedenza. Il primo riguarda la gestione del “presente”, ovvero il processo a Salvatore Vinci. Una parte che, per quanto necessaria, viene liquidata troppo in fretta, affidandosi a una sola battuta — il celebre “non mi ricordo” di Stefano Mele — per archiviare un passaggio cruciale. La scena manca di peso emotivo e sembra funzionale solo a chiudere formalmente un capitolo. Il secondo limite è di natura strutturale: la linearità del racconto si perde nei continui salti temporali e nelle sovrapposizioni con scene già viste. È un espediente intelligente e coerente con la costruzione a puzzle che Sollima e Fasoli hanno adottato per tutta la serie, ma in questa puntata rischia di rendere la visione più complessa del necessario, soprattutto per chi non ha familiarità con la cronologia reale dei fatti.
Tuttavia, questi difetti non compromettono la forza dell’episodio. Anzi, contribuiscono a sottolineare la natura frammentata e caotica della vicenda stessa. L’impressione è quella di assistere a un incubo costruito su prospettive parziali, dove ogni verità è relativa e dove ogni personaggio racconta solo una parte del disastro. La regia di Sollima è calibrata, tesa, e mantiene quell’equilibrio perfetto tra realismo e tensione psicologica che da sempre caratterizza il suo stile. Ogni dettaglio — dai silenzi alle inquadrature strette sui volti — amplifica la sensazione di disagio e claustrofobia. È un finale che non cerca lo shock, ma il malessere.
UNA CHIUSURA CHE GUARDA AVANTI
Il finale de Il Mostro riesce nell’impresa di chiudere il capitolo della pista sarda e, al tempo stesso, aprire le porte al prossimo inevitabile passo della storia: quello dedicato a Pietro Pacciani e ai cosiddetti “compagni di merende”. Nonostante non sia un cliffhanger vero e proprio, la conclusione lascia intravedere con chiarezza la direzione che la narrazione prenderà, spostando l’attenzione dalle faide personali a un sistema criminale più ampio, dove la violenza diventa collettiva e rituale. È una scelta che convince, perché permette di ampliare lo spettro del racconto senza tradire l’impianto originale della miniserie.
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Nel complesso, Il Mostro si conferma come una delle produzioni italiane più solide e ambiziose degli ultimi anni, capace di affrontare una vicenda storica con rigore, sensibilità e un’estetica potente. Il lavoro di Sollima e Fasoli non è mai fine a sé stesso: ogni dettaglio serve a ricostruire una verità parziale, ambigua e scomoda, come lo sono sempre le verità che riguardano l’animo umano. Con questo ultimo episodio, la serie non offre un finale risolutivo, ma un passaggio di testimone verso una nuova fase del male. E in fondo, è proprio questa la sua forza.
