>Le aspettative di chi si è avvicinato a Il Mostro pensando di ritrovarsi davanti a una miniserie concentrata sulla figura di Pietro Pacciani continuano a essere sovvertite. Stefano Sollima e Leonardo Fasoli, invece, scelgono una traiettoria completamente diversa e focalizzano (di nuovo) il cuore narrativo di questo secondo episodio sulla pista sarda, con Francesco Vinci al centro dell’indagine come principale sospettato del duplice omicidio di Antonio Lo Bianco e Barbara Locci nel 1968.
È una scelta narrativa audace perché obbliga lo spettatore ad abbandonare qualsiasi preconcetto legato a “il mostro” e a immergersi in un contesto storico, sociale e personale ben più torbido e stratificato. In un panorama televisivo in cui spesso la cronaca nera viene banalizzata o compressa per generare tensione facile, questa miniserie procede invece con lentezza chirurgica, mostrando non solo i fatti ma anche le radici sociali e psicologiche che li precedono.
FRANCESCO VINCI È IL MOSTRO?
Questo secondo episodio poi si rivela fondamentale per dare struttura e senso sia alla puntata precedente che verosimilmente anche al resto della miniserie. Se l’esordio lasciava qualcuno disorientato tra nomi, date e moventi apparentemente slegati, qui Sollima e Fasoli stringono l’inquadratura sulla figura di Francesco Vinci, chiarendo le dinamiche che lo legano a Barbara Locci e a Stefano Mele. È un’operazione quasi didattica che permette allo spettatore di orientarsi in una vicenda complessa e stratificata, e di iniziare a decifrare le logiche — spesso molto distorte — che guidano i protagonisti di questo intricato puzzle criminale.
Il vero focus è ovviamente Vinci. Il suo passato da ladro, i maltrattamenti alla moglie, l’innamoramento per Barbara Locci prima autentico e poi corrotto da gelosia e malelingue, emergono con una precisione che getta nuova luce sul primo episodio. Vinci diventa il primo personaggio davvero tridimensionale della miniserie: privo di morale, incapace di provare empatia, guidato solo da pulsioni egoistiche e da una gelosia cieca che lo divora dall’interno. La sua vigliaccheria traspare costantemente, ma c’è un momento preciso in cui tutto questo si cristallizza: durante l’interrogatorio, quando paragona un pacchetto di sigarette a un indizio, Vinci si tradisce da solo. È la scena che lo definisce, in cui la sua colpevolezza e la sua vera natura vengono fuori senza bisogno di proclami.
Francesco Vinci: “Allora non è un pacchetto di sigarette, era un pacchetto di sigarette. Ora è un pacchetto e basta. Adesso non è più neanche un pacchetto. Gli indizi sono così, uno li può far diventare quello che vuole ma restano sempre la stessa cosa: indizi, mai prove.“
La scrittura di questo segmento è chirurgica e la regia lo sottolinea con lentezza, quasi a voler imprimere nella mente dello spettatore l’immagine di un uomo piccolo, meschino e colpevole. È una scena che vale più di mille spiegazioni e che dimostra ancora una volta quanto Sollima sappia costruire tensione con l’essenziale.
AH, NON ERA IL MOSTRO?
Ma proprio quando il focus sembra tutto proiettato su Vinci, arriva il plot twist finale: l’omicidio di una coppia di turisti tedeschi gay, commesso mentre Vinci si trova in carcere. Un colpo di scena costruito con eleganza, che non punta tanto sull’effetto shock quanto sulla consapevolezza che questa storia è molto più grande di un solo uomo. Un momento che apre la porta ai prossimi due episodi e che, per la prima volta, mette in discussione la narrativa dominante attorno a un unico colpevole.
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