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Trial By MediaTEMPO DI LETTURA 7 min

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Nei media, come in altre istituzioni importanti, coloro che non mostrano di condividere valori e punti di vista richiesti saranno considerati irresponsabili, ideologici o comunque persone devianti e tenderanno ad essere esclusi.

Noam Chomsky, La Fabbrica del Consenso

Trial By Media (Processi Mediatici in Italia), docuserie di produzione Netflix (prodotta da George Clooney Grant Heslov, dal giornalista e avvocato Jeffrey Toobin, dal fondatore di Court TV Steven Brill e da Brian McGinn, Jason Sterman e David Gelb di Supper Club) è incentrata su alcuni dei processi che hanno causato maggior scalpore negli Stati Uniti e nel mondo, divenuti oggetto di discussione e dibattito per l’opinione pubblica e spesso trasformati da drammi a vere e proprie forme di intrattenimento.
Composto da sei episodi della durata media di un’ora, Trial By Media può contare su uno storytelling molto coinvolgente, in grado di tenere alta l’attenzione dello spettatore nonostante la serietà degli avvenimenti raccontati, e su una qualità tecnica frutto del lavoro combinato di alcuni dei più bravi documentaristi in circolazione. Un’occasione imperdibile per capire al meglio il ruolo dei mass media in relazione al sistema giudiziario e alle implicazioni che questo rapporto spesso conflittuale può avere su vittime e imputati, ma anche un ottimo prodotto seriale fruibile da chiunque e più che mai attuale nonostante i casi trattati risultino collocati perlopiù negli ultimi vent’anni del secolo scorso.

VERO COME LA FINZIONE: LO SPETTATORE MODERNO TRA CATARSI E VOYEURISMO


Court of public opinion is very important. That’s the first trial.

La serie prende il via con “Talk Show Murder”, episodio dedicato all’omicidio di Scott Amedure, ucciso a colpi di fucile dall’amico Jonathan Schmitz dopo avergli confessato, nel corso del celebre Jenny Jones Show, di essere attratto da lui. Una condizione mentale precaria e il forte imbarazzo per le avance dell’amico di fronte alle telecamere bastarono per portare l’appena 24enne Schmitz ad uccidere il suo amico per poi costituirsi immediatamente alle autorità. La decisione di aprire la stagione con questo caso specifico non è certo casuale. In un periodo in cui i Trash Talk Show la facevano da padrone all’interno dei palinsesti televisivi americani, sfruttando spesso e volentieri l’ignoranza e il bisogno compulsivo dello spettatore di assistere alle tragedie altrui, la famiglia di Scott Amedure decise così di fare causa allo show, in quanto catalizzatore degli eventi tragici che da lì a poco sarebbero avvenuti. In seguito Court TV – prodotto dalla stessa compagnia sotto accusa – decise di trasmettere il processo, attirando una media di circa 475.000 spettatori al giorno, molti dei quali ammisero di preferirlo alle normali soap opera.
Un ottimo punto di partenza per la serie che da qui in poi, in maniera del tutto implicita, vuole chiedere allo spettatore: con quale tipo di intrattenimento ci si trova ad avere a che fare? Questi show si reggono solo ed esclusivamente sui drammi emotivi dei propri ospiti e sulla catarsi, intesa qui come attitudine all’evasione, alla fuga dalla realtà, favorita dalle suddette produzioni mediatiche di intrattenimento, e proprio per questo motivo risulta veramente facile dimenticare che si tratta di persone reali con segreti che vengono realmente rivelati ad un pubblico di perfetti sconosciuti.
Se da una parte questo aspetto mette in luce la scomoda verità secondo la quale il sistema mediale non è altro che un mercato dove la notizia è un mero prodotto da vendere allo spettatore, dall’altra non può far altro che riflettere circa il ruolo di quest’ultimo, sadico consumatore alla ricerca di nuove tragedie in cui ficcare il naso, e proprio per questo motivo carnefice in egual misura rispetto ai dispensatori di tali contenuti.

NON È STATO UN INCIDENTE, SONO STATI I ZINGHIRI!


The media are not your friends. […] They built you up, and now they’re ready to knock you down.

Se “Talk Show Murder” ha il compito di spianare la strada a quello che sarà il vero leitmotiv dell’intera serie – il complesso rapporto tra processo mediatico e processo giudiziario – con “Subway Vigilante” e “41 Shots” si entra ufficialmente nel vivo del dibattito in merito alla coesistenza, e alla continua conflittualità, di questi due processi paralleli. In entrambe le puntate si ha a che fare con l’omicidio a sangue freddo di ragazzi afroamericani, nel primo caso per mano di Bernhard Coetz (il Subway Vigilante appunto) che uccise quattro ragazzi di colore perché spaventato e traumatizzato da una precedente aggressione, e nel secondo caso per mano di quattro poliziotti, che uccisero il 24enne Amadou Diallo con 41 colpi di pistola per poi essere assolti da tutti i capi d’accusa.
Lasciando per un attimo da parte l’aspetto puramente razziale, le due puntate spostano il focus sulla percezione che le persone da casa ebbero su Coetz e sui quattro agenti incriminati, persone che mai negarono di aver sparato, ma che i media contribuirono ad umanizzare a tal punto da trasformarli in vittime. Il punto focale diventa quindi un altro, non più soltanto la spettacolarizzazione del dramma e il sensazionalismo del processo, ma anche (e soprattutto) l’influenza che i mass media esercitano tramite le loro rappresentazioni della realtà e che indirettamente coinvolgono lo spettatore nel dibattito televisivo accanto a “innocentisti” e “colpevolisti”.
Stesso discorso può essere fatto per il quinto episodio “Big Dan’s Tavern”, probabilmente il più impattante a livello emotivo, che segue le vicende dello stupro di gruppo ai danni di Cheryl Araujo (ai tempi 21enne) avvenuto appunto all’interno dell’omonimo locale situato a New Bedford per mano di quattro uomini portoghesi tra le risate e gli incitamenti di alcuni (almeno due) “spettatori” rimasti in disparte a guardare. Il caso divenne il primo processo di stupro mai trasmesso in TV negli Stati Uniti e, sebbene si possa ottimisticamente pensare che la ragione risiedesse nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica, le conseguenze dell’eco mediatica in questo caso risultarono atroci da ambedue le parti. Da una parte la comunità portoghese cominciò ad inneggiare contro la vittima, seguendo l’onda del dibattito secondo cui la ragazza se la fosse andata a cercare (anch’esso alimentato da trash Talk Show e dubbi interventi televisivi), mentre dall’altra l’americano medio cominciò a coltivare odio e pregiudizi nei confronti degli immigrati portoghesi. A prescindere dalla “fazione” in gioco, l’unica a rimetterci fu proprio la ragazza, colpevolizzata all’unanimità e passata da vittima a carnefice a causa di una spettacolarizzazione delle vicende giudiziarie che, come accade tutt’oggi, finiscono per spostarsi in salotti televisivi dove tutti possiedono libertà di parole meno gli attori coinvolti, e dove sempre meno si tiene conto dell’essere umano che si nasconde dietro la notizia.

LO SPECCHIO DEFORMANTE DELLA CRONACA GIUDIZIARIA


People like watching the mighty fall.

Per quanto riguarda invece i due episodi più “deboli” (solo per comparazione) della stagione, “King Richard” e “Blago!”, si può invece trovare una comunanza nella frase citata poco sopra, ovvero nel piacere sadico insito nell’essere umano di assistere alla cosiddetta “ascesa e caduta dei grandi poteri”.
Vale naturalmente quanto detto sopra in merito alla spettacolarizzazione del processo giudiziario e alla creazione di inutili e tendenziose aspettative nei confronti degli imputati, ma in più si assiste anche a quella che si potrebbe definire come teatralità sottesa al procedimento giudiziario, grazie alla quale personaggi come Richard Scrushy, visionario del settore sanitario accusato di frode, riciclaggio di denaro e quant’altro (per un totale di 85 capi d’accusa e 650 anni di prigione), o Rod Blagojevich, ex governatore dell’Illinois che tentò di vendere al miglior offerente il seggio lasciato vacante dal neo Presidente Obama, possono comunque avere una chance. In più di un’occasione viene utilizzata l’espressione “teatrino”, ponendo l’accento sulle varie media strategy elaborate in modo da regalare al pubblico un’immagine migliore dell’imputato, umanizzandolo a tal punto da attirare a sé le simpatie dell’opinione pubblica.
Così i processi mediatici paralleli a quelli giudiziari diventano veri e propri esempi di fiction, spesso fondate su informazioni parziali o faziose, e causa principale della formazione di opinioni calunniose che spesso e volentieri sfociano in giudizi di valore del tutto superficiali, pregiudiziali o, come in questo caso, di una visione della realtà ribaltata, smontata e ricomposta in un gioco senza fine di specchi deformanti.

… THEM ALL!


 

Talk Show Murder 1×01
Subway Vigilante 1×02
41 Shots 1×03
King Richard 1×04
Big Dan’s Tavern 1×05
Blago! 1×06

 

Trial By Media è sicuramente una docuserie che merita di essere recuperata. L’esiguo numero di puntate, seppur della durata di un’ora ciascuna, si presenta come un ottimo prodotto adatto al binge-watching. Pur trattando argomenti molto delicati e spesso molto crudi, non ci si ritrova mai ad annoiarsi, questo grazie ad uno storytelling sempre incalzante e alla scelta di storie incredibili e più che mai attuali. I mass media sono armi potenti in mano agli uomini, soprattutto quando entrano in collisione con alcuni settori della società, come quello giudiziario. Trial By Media non cerca di criticarli in quanto tali, bensì cerca di responsabilizzarne l’uso, optando per la promozione della coesione del tessuto sociale piuttosto che sulla spettacolarizzazione del dramma. Un compito decisamente arduo e che, a giudicare dall’evoluzione del mezzo negli ultimi vent’anni, richiederà ben più di un semplice documentario per essere realizzato.

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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.

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