Homeland 6×01 – Fair GameTEMPO DI LETTURA 5 min

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Homeland torna a calcare la scena telefilmica per il sesto anno consecutivo mettendo in mostra pregi e difetti di un meccanismo, oramai rodato, di riavvio totale della diegesi. Un cambio di registro necessario dopo la dipartita di Brody e magistralmente gestito dal comparto autoriale che, anno dopo anno, è riuscito brillantemente a virare in direzione di temi d’attualità molto sentiti, non solo dal popolo americano, mantenendo sempre alto l’interesse dello spettatore. Questo ciclico sistema di reboot nasconde però diverse insidie. A causa di quella che parrebbe essere una scelta stilistica voluta dagli autori, ogni anno la serie prende il via un po’ in sordina, proprio per consentire allo spettatore di ovviare allo spaesamento causato dal cambio di coordinate spaziotemporali tra un’annata e l’altra, ma con la spiacevole conseguenza di annoiare i meno pazienti.
A tal proposito ci sembra interessante volgere per un attimo lo sguardo al passato, rievocando una delle serie antologiche più avvincenti di sempre, oramai divenuta punto di riferimento per tutti gli appassionati del genere action/thriller e, più in generale, per tutti gli amanti della serialità televisiva. Molti di voi avranno già capito che ci riferiamo a 24, telefilm andato in onda dal 2001 al 2010 che ha reso celebre l’attore Kiefer Sutherland – figlio del ben più noto Donald – e con la peculiarità di narrare gli eventi in tempo reale lungo un ciclo stagionale di ventiquattro episodi corrispondenti alle ventiquattro ore di una giornata. Non è naturalmente quest’ultima curiosità a far nascere in noi l’esigenza di una comparazione, bensì la somiglianza tra le due serie in termini di tematiche trattate (la minaccia del terrorismo).
Il meccanismo di riavvio stagionale attuato in Homeland, a partire dalla quarta stagione, differisce in maniera sostanziale da quello attuato in 24, molto più dinamico e scoppiettante in fase di avvio rispetto alla serie di Showtime, nonostante entrambe le produzioni adottino il medesimo modello narrativo. Visto il numero esiguo di episodi rispetto al suo storico antenato, verrebbe da pensare a una scelta infelice compiuta dagli autori, a prima vista maggiormente interessati a una più accurata contestualizzazione a discapito della componente action, vero punto di forza della serie, e invece avidamente centellinata e relegata alle fasi conclusive della stagione. La realtà dei fatti è invece un’altra. Una partenza in quinta risulterebbe qui estremamente fuori luogo, causa una scelta stilistica che vira in direzione della fiction, dove la questione terrorismo deve essere sfondo e allo stesso tempo motore dell’azione, senza però negare spazio alle trame secondarie sopravvissute alla nuova forma antologica, unico legame della serie con i suoi spettatori di vecchia data. Per avere la cosiddetta scossa di adrenalina dovremo quindi aspettare – l’anno scorso giunse nel secondo episodio, ma ad esso seguirono alcune puntate di assestamento prima di giungere al vero epicentro narrativo – visti i precedenti, possiamo tranquillamente confidare nella spinta motrice generata dal rombante motore narrativo che alimenta la serie, inizialmente troppo freddo per poter reggere ritmi costanti e sostenuti che invece contraddistinguono, sin dalle prime battute stagionali, serie come 24.
È innegabile, comunque, come questa partenza, considerata da alcuni funzionale alla maturazione di un genuino interesse nei confronti della stagione in corso, risulti per altri una sontuosa mazzata negli zebedei seccatura. La costruzione della tensione in seno allo spettatore passa qui per vie traverse, tramite la menzione sporadica di termini a noi molto familiari – si parla di Al Qaeda e di ISIS – ma senza mai entrare effettivamente nel merito della questione. La serie si appoggia dunque all’imponenza tematica delle annate precedenti, contestualmente disgiunte l’una dall’altra, eppure fortemente legate proprio in virtù della sopracitata costruzione della tensione.
In merito allo zoccolo duro di Homeland, costituito dal trio Carrie-Saul-Dar Adal, non vi è granché da dire: troviamo la prima pronta a difendere le minoranze etniche e religiose prese di mira dal governo americano, forte del sostegno finanziario di Otto During, intento, tra le altre cose, a frequentare altre persone per la gioia della Drone Queen, e i due membri della CIA alle prese con il nuovo Presidente Eletto, contrario, per ragioni personali, alle interferenze dei servizi segreti nelle questioni di politica estera.

So, he’s out of surgery. But the hematoma was very large. We had to perform a craniotomy, drain it and repair the bleed. […] It was a bad one. And even if he does recover, the brain damage will be significant.

A colpire, invece, è la sorte riservata a Rupert Friend – miglior performance recitativa dell’episodio – e al suo bistrattato personaggio. Nello scorso season finale le parole del chirurgo che lo aveva operato avevano azzerato le speranze, tuttavia, proprio negli ultimi minuti, un posticcio gioco di luci era stato buttato lì quasi a mantenere vivo il possibile miracolo, il miracolo degli autori. Potremmo sciolinare offese non richieste verso un cliffhanger inadeguato oppure constatare che Peter, anche quest’anno, è al centro di una radicale trasformazione caratteriale che, quantomeno, conferisce un po’ di vivacità alla temporanea situazione di stallo ritmico e narrativo che ha contraddistinto questa premiere.

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • La capacità dello show di reinventarsi ogni anno sfruttando tematiche d’attualità
  • L’interpretazione di Rupert Friend
  • Ritmi fin troppo blandi come la maggior parte delle premiere della serie
  • Peter Quinn l’immortale

 

Con una partenza un po’ in sordina, Homeland si guadagna il nostro Save politico, giudizio che comunque siamo certi andrà aumentando dopo la consueta fase preparatoria d’inizio stagione. Le potenzialità, anche quest’anno, ci sono tutte, occorrerà lavorare su alcuni aspetti ma le premesse, per ora, sono buone.

 

A False Glimmer 5×12 2.07 milioni – 0.7 rating
Fair Game 6×01 1.08 milioni – 0.3 rating

 

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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.

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