Ci sono momenti nella vita di una serie in cui bisogna ammettere che la magia è finita. E per The Handmaid’s Tale quel momento sembra essere arrivato con “Promotion”. Un episodio in cui accade poco, viene detto ancora meno e, quel che è peggio, non si percepisce nemmeno più quella cura e tensione drammatica che avevano reso la serie un evento culturale.
La trama, in soldoni: June decide di tornare attivamente nella lotta per salvare Hannah. Ma ci vogliono 44 minuti di cose a caso per arrivarci. Nel frattempo, si trascinano sottotrame stanche, momenti scritti per dovere e dialoghi che si rincorrono nel vuoto. “Promotion” è un episodio che poteva essere scritto da una IA istruita a creare filler di metà stagione, e non si sarebbe nemmeno qui a notare la differenza tanto è visibile la qualità delle sceneggiature precedenti.
GROVIERA
A livello narrativo, l’episodio è disarmante. June prova a contribuire al lavoro della resistenza ma Luke la esclude, e poi June salva Luke tramite l’aiuto di Nick che tra l’altro fa fuori due guardie senza nessuna conseguenza. Poi arriva Mark Tuello a dire che il caso di Luke è stato archiviato e tutti possono tornare in Alaska. La reazione? Apatia più totale, confusione parziale e generale disinteresse.
Ma il vero problema è più profondo e strutturale dato che ormai è palese che The Handmaid’s Tale sia diventata l’ombra di sé stessa. Quella serie potente, disturbante, visivamente curata e narrativamente tagliente è un lontano ricordo. E il fatto che manchino solo sei episodi alla conclusione non fa che aumentare l’amarezza. Si poteva – e si doveva – chiudere tutto quando la serie era all’apice. Invece ora è visibile anche agli spettatori meno attenti che si è di fronte a buchi logici, personaggi incoerenti e un world-building che crolla sotto il peso della sciatteria e della mancanza di una struttura.
Un esempio su tutti? Il confine tra Canada e Gilead, che una volta era descritto come una barriera invalicabile, adesso è praticamente un colabrodo, paragonabile ai tornelli di un supermercato. I personaggi lo attraversano in macchina senza controlli, senza tensione, senza spiegazioni. Ma se è così facile passare da una parte all’altra, perché allora nessuno scappa? Perché tutte le sofferenze e gli ostacoli delle stagioni passate? È un buco narrativo gigantesco che mina la credibilità dell’intera serie.
ALTRE COSE A CASO
June, nel frattempo, continua a prendere decisioni discutibili e a cambiare idea ogni cinque minuti, perdendo completamente il fuoco che l’aveva definita nelle prime stagioni. Doveva essere la ribelle, la madre pronta a tutto, il volto della resistenza mentre ora è solo un personaggio confuso, irrazionale, più preoccupata di gestire Moira che di salvare la figlia. E il contrasto con Serena Joy, che invece appare sempre più determinata, lucida e con un piano ben preciso, non fa che evidenziare ancora di più la deriva narrativa di June. Ed è anche questo che è visibile: una June stanca e scritta da sceneggiatori probabilmente altrettanto stanchiò
L’unico salvato in corner è Bradley Whitford, con un Lawrence che resta ambiguo e interessante, tra pentimento e freddo calcolo ed una conversazione con Janine che poteva anche essere evitata.
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“Promotion” è il primo vero scivolone di stagione, e lancia un segnale allarmante: la serie non sa più dove sta andando. E quando succede questo a un prodotto che per anni è stato simbolo di tensione, resistenza e scrittura d’élite, non si può che essere delusi. Il problema non è solo che The Handmaid’s Tale è cambiata. È che non sa più nemmeno chi vuole essere.
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Fondatore di Recenserie sin dalla sua fondazione, si dice che la sua età sia compresa tra i 29 ed i 39 anni. È una figura losca che va in giro con la maschera dei Bloody Beetroots, non crede nella democrazia, odia Instagram, non tollera le virgole fuori posto e adora il prosciutto crudo ed il grana. Spesso vomita quando è ubriaco.