
Diciamolo chiaramente: “Executions” è un episodio ambizioso solo sulla carta.
Un’impiccagione pubblica di June e delle altre Handmaids dovrebbe teoricamente rappresentare uno dei picchi emotivi della stagione ma, nella pratica, questo momento viene completamente svuotato del suo potenziale drammatico da un problema molto semplice: questo è il penultimo episodio della serie e tutti sanno benissimo che June non può morire, o almeno non qua. Quindi quella scena, che avrebbe dovuto essere scioccante, si trasforma in un lungo esercizio di stile prevedibile e forzato, con una tensione che si dissolve ancor prima che inizi.
A peggiorare il tutto ci si mette una gestione del ritmo e della credibilità che definire claudicante è poco. Luke, Rita e altri membri di Mayday si trovano nella folla al momento dell’impiccagione e… non fanno nulla (il tutto senza parlare delle lacrime di Luke). Aspettano che June venga impiccata per lanciare delle granate nel mucchio, in una delle decisioni più demenziali viste nella serie da tempo. È una sequenza che vorrebbe essere esplosiva, ma finisce solo per essere implausibile e fastidiosa, confermando l’ennesima mossa da serie tv di serie B, non da una serie che in passato sapeva gestire tensione e realismo con intelligenza.
GEOGRAFIA PORTAMI VIA
E poi c’è il solito, enorme problema della geografia narrativa e della gestione dei confini tra Gilead, il Canada e gli altri territori. The Handmaid’s Tale ci aveva abituati, nelle sue stagioni migliori, a percepire questi confini come invalicabili, tracciati con filo spinato, pattugliati da milizie armate, segnati da pericoli concreti e spesso letali. Attraversarli era un atto di fede e di disperazione, un’impresa estrema che metteva a rischio la vita dei personaggi e spesso comportava conseguenze devastanti. Bastava solo provare a scappare per finire fucilati o spediti nelle Colonie.
Ora invece ci si trova davanti a un mondo dove quei confini sembrano essere diventati un fastidio logistico più che una reale barriera. I personaggi si muovono con una disinvoltura che sfiora l’assurdo: vanno e vengono da Gilead al Canada in macchina, volano su aerei come se stessero andando in gita, guidano camion senza che nessuno li fermi, li controlli, li interroghi. Dove sono le ronde? I checkpoint? Le telecamere, i droni, le perquisizioni? Il mondo iper-controllato di Gilead è diventato una farsa in cui la logica si piega alle esigenze della trama.
Il risultato è duplice, e devastante. Da un lato, si perde completamente il senso di oppressione e claustrofobia che aveva reso la serie un simbolo della distopia contemporanea. Dall’altro, si svuota retroattivamente il significato di tutte le sofferenze e i sacrifici visti nelle stagioni precedenti: se oggi June può attraversare il confine come se niente fosse, allora cosa giustificava tutto quel sangue, quelle torture, quelle perdite nel passato? A che pro la morte di tante donne? Perché nessuno, in un mondo così poroso, organizza fughe di massa? Perché i ribelli non sfruttano questa permeabilità per liberare donne e bambini?
È come se gli autori avessero dimenticato la loro stessa ambientazione, smettendo di rispettarne le regole e le dinamiche. Una pigrizia narrativa che non solo impoverisce l’episodio, ma mina alle fondamenta l’intera credibilità dell’universo di The Handmaid’s Tale. Un universo che, con grande fatica, era stato costruito su coerenza, controllo e paura. E che ora, nella sua fase terminale, sembra franare sotto il peso delle scorciatoie.
ADDIO COMANDANTI
Il sacrificio di Lawrence è sicuramente uno dei momenti meglio costruiti della puntata, ma è anche talmente logico da risultare scontato. Dopo una stagione passata a mostrare la sua umanizzazione e il legame con Angela, era difficile aspettarsi un finale diverso. Bello, sì. Potente, anche. Ma senza sorprese. È una chiusura troppo “comoda” per un personaggio che, per anni, ha incarnato l’ambiguità morale e il compromesso.
Molto peggio è invece la gestione di Nick. La sua morte era probabilmente inevitabile a questo punto, ma la modalità e il timing sono pessimi. Dopo stagioni passate a costruirlo come personaggio complesso, diviso tra il sistema e l’amore per June, vederlo liquidato così svuota di significato tutto ciò che lo riguardava. La sua storyline è stata tirata avanti per stagioni senza reali sviluppi, per poi concludersi nel nulla, senza un vero impatto emotivo o narrativo. È un gigantesco spreco.
| THUMBS UP 👍 | THUMBS DOWN 👎 |
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In sintesi, “Executions” rappresenta tutto ciò che è andato storto in questa stagione. Vorrebbe essere potente, ma è meccanica. Vorrebbe stupire, ma è prevedibile. Vorrebbe emozionare, ma ci lascia distanti. È il chiaro segnale che The Handmaid’s Tale non solo ha perso la sua anima, ma anche la capacità di capire cosa rendeva forti le sue stagioni migliori. Un penultimo episodio mediocre, che lascia più frustrazione che attesa per il finale.
