Nel panorama della serialità contemporanea, The Morning Show ha spesso saputo alternare – in molti casi con risultati quantomeno dubbi – dramma politico e tensione emotiva, fondendo la riflessione sul potere mediatico con le dinamiche intime dei suoi protagonisti. Tuttavia, in questo terzo episodio, significativamente intitolato “Tipping Point”, l’intento dichiarato di mostrare i personaggi di fronte a scelte morali e professionali dirompenti si disperde in una narrazione frammentata, dove l’introspezione si sostituisce all’azione e l’intensità drammatica si dissolve in un lento accumulo di dialoghi privi di tensione.
LA SOLITA MINESTRA RISCALDATA
L’episodio tenta di orchestrare una sinfonia di conflitti, ma il risultato è una partitura dissonante, incapace di sostenere l’interesse dello spettatore. Il ritorno di Paul Marks nella vita di Alex Levy, l’ennesima crisi di coscienza di Bradley Jackson e la caduta professionale di Mia Jordan si intrecciano in un mosaico che, pur ricco di potenzialità, fatica a trovare un centro emotivo o narrativo coerente. L’impressione dominante è quella di un racconto che procede per inerzia, affidandosi alla reputazione dei personaggi piuttosto che alla forza delle loro azioni.
La vicenda di Alex, apparentemente chiamata a gestire le conseguenze del proprio scontro con i poteri economici, avrebbe potuto restituire un ritratto penetrante del compromesso giornalistico in epoca di pressioni aziendali e interessi pubblicitari. Invece, la scena del confronto con Paul, pur ambiziosa nel suo tentativo di far emergere la fragilità sentimentale dietro l’orgoglio professionale, scivola verso un sentimentalismo poco credibile. La tensione che un tempo caratterizzava il rapporto tra i due personaggi si riduce a un rituale prevedibile di accuse e nostalgie, appesantito da dialoghi che ripetono motivi già ampiamente esplorati nelle stagioni precedenti. L’incontro con l’ex amante non accende nuovi conflitti, ma riporta semplicemente in superficie i medesimi rimpianti, privi di reale evoluzione.
TUTTI GLI UOMINI DEL PRESIDENTE DEFICIENTE
Ancora più problematica risulta la storyline di Bradley Jackson, che si addentra ulteriormente nell’indagine sullo scandalo del Wolf River. L’intreccio investigativo, teoricamente destinato a fungere da motore narrativo, si sviluppa con un ritmo farraginoso e una prevedibilità disarmante. L’incontro con Bethanne Hines e la scoperta dei documenti riservati sembrano scene di passaggio più che momenti di svolta, mancando della necessaria densità drammatica. In questo contesto, l’improvvisa evoluzione del rapporto tra Bradley e Cory, culminata nella loro relazione fisica, appare non solo affrettata ma anche goffamente orchestrata. Quella che avrebbe potuto essere una mossa narrativa provocatoria si trasforma in un espediente artificiale, incapace di suscitare emozione o plausibilità. L’assenza di autentica chimica tra Reese Witherspoon e Billy Crudup, evidente sin dalle prime stagioni, qui si fa quasi imbarazzante, accentuando la sensazione di una scrittura forzata, più interessata al colpo di scena che alla coerenza psicologica dei personaggi.
Sul versante professionale, la trama che coinvolge Stella e Mia avrebbe potuto offrire uno sguardo acuto sul cinismo del potere e sulle dinamiche di lealtà e tradimento all’interno del network. Tuttavia, anche in questo caso, il potenziale drammatico viene annacquato da una messa in scena convenzionale e priva di ritmo. La caduta di Mia, sacrificata alle logiche aziendali e vittima della debolezza di Stella, è certamente il momento più emotivamente efficace dell’episodio, ma arriva privo della necessaria costruzione preparatoria. La tensione si dissolve rapidamente, lasciando solo un retrogusto amaro e la consapevolezza che The Morning Show continua a replicare schemi già visti, senza riuscire a rinnovarli o approfondirli.
BLOCCATI IN UN LOOP INFINITO
L’episodio soffre soprattutto di un problema di tono. L’alternanza di registri – ora politico, ora sentimentale, ora satirico – non produce la complessità auspicata, ma una confusione che indebolisce l’impatto di ogni singola scena. I dialoghi, spesso ridondanti, sembrano concepiti più per ribadire concetti morali che per far avanzare la trama. L’assenza di un vero crescendo emotivo trasforma anche i momenti potenzialmente forti, come la decisione di Mia di dimettersi o la vulnerabilità di Stella, in episodi completamente slegati tra loro.
Un altro elemento che contribuisce alla percezione di stanchezza è la prevedibilità con cui gli autori continuano a manipolare le relazioni sentimentali tra i vari protagonisti. La relazione Alex-Paul, la coppia improvvisata Bradley-Cory, la crisi Stella-Mia, tutto appare come la ripetizione di un ciclo di fratture e riconciliazioni che oramai non sorprende né commuove. Anche i dialoghi più intensi si riducono a variazioni di temi già ampiamente affrontati, come il potere, la colpa, l’ambizione e il compromesso morale. In mancanza di nuovi stimoli narrativi, l’episodio finisce per trascinarsi in una monotonia quasi burocratica, dove l’unico movimento percepibile è quello delle parole, non delle emozioni.
Ciò che salva parzialmente la puntata è la qualità interpretativa del cast, capace di conferire una certa dignità anche alle scene più statiche. Jennifer Aniston continua a rendere Alex Levy una figura complessa, divisa tra orgoglio e fragilità, mentre Greta Lee restituisce a Stella una vulnerabilità autentica nel momento del crollo; Karen Pittman, nei panni di Mia, offre infine una delle poche performance realmente vibranti dell’episodio, trasmettendo la delusione di una donna che, dopo anni di compromessi, sceglie finalmente di non accettare più il ricatto morale del sistema. Tuttavia, tali interpretazioni rimangono episodi isolati, incapaci di risollevare un insieme narrativo perlopiù sfilacciato e dispersivo.
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“Tipping Point” sembra voler suggerire che i personaggi abbiano finalmente raggiunto un punto di non ritorno, ma la messa in scena non restituisce la gravità di tale passaggio. Tutto appare sospeso, come se la serie avesse smarrito la consapevolezza della propria identità. Le tematiche – la corruzione aziendale, la manipolazione del potere mediatico, la fragilità dei rapporti umani – restano enunciate ma non vissute, evocate ma mai realmente esplorate. L’impressione conclusiva è quella di un episodio che aspira alla complessità ma scivola nell’autocompiacimento, preferendo accumulare conflitti piuttosto che svilupparli con coerenza e profondità.
