The Handmaid’s Tale 1×09 – The BridgeTEMPO DI LETTURA 4 min

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The Handmaid’s Tale sta arrivando al suo capolinea in modo quantomeno bizzarro. “The Bridge”, a dispetto del titolo, non è infatti un ponte gettato verso il season finale bensì un altro atipico episodio stand-alone. Non che questo incida direttamente sulla qualità di questi cinquanta minuti, ma bisogna riconoscere come in questo modo la serie offra il fianco a tutti i detrattori che non vedranno (arrivati a questo punto è ormai quasi una certezza) un finale esplosivo e di raccordo, con il peso delle varie storyline sparse per il mondo (vedi Luke e il Canada, qui completamente dimenticato) e che andranno a influenzare pesantemente gli ultimi minuti utilizzabili dalla serie in questa annata.
Una prima stagione, inutile dirlo, altrettanto bizzarra dal punto di vista seriale, sia per una specifica decisione autoriale sia per l’ormai confermata e inesorabile incapacità di Hulu di gestire grandi progetti. Due “resurrezioni” nel giro di due episodi – Luke e Moira – hanno nello specifico intaccato l’aurea ottimale che THT aveva generato attorno a sé. Non tanto per la qualità estetica, che comunque rimane ineccepibile (in “The Bridge” tra l’altro ritorna la fotografia luminosissima caratteristica dei primi episodi, insieme a un commento musicale sempre più coraggioso e apprezzabile), quanto perché questa prima avventura dentro Gilead – la serie ha già ottenuto da tempo il rinnovo per una seconda e, se dovessimo sbilanciarci, per molte altre altre stagioni – ha dato modo finalmente anche a una serie tv di generare dibattito e confronto sull’attualità che ci circonda. Finalmente anche le serie tv possono godere di quello status quo che ha da sempre caratterizzato il cinema fin dai suoi esordi: non solo intrattenimento, ma anche educazione e insegnamento. Anzi, se fosse pensato come un prodotto di intrattenimento (simile quindi al 90% delle altre produzioni seriali) The Handmaid’s Tale si ritroverebbe per forza di cose in fondo a ogni classifica immaginabile per via della visione difficoltosa e a tratti pesante che la accompagna. Non si dissocia in questo dalle grandi produzioni cinematografiche; così come non è facile approcciarsi alle opere di Malick, Kubrick, Gilliam, Tarantino e tanti altri, allo stesso modo una certa farraginosità è il dazio da pagare per un’analisi accurata non solo di questo preciso momento storico, ma più in generale del concetto stesso di libertà-verità.

June:Change is coming. There’s hope. All of this, it’s all gonna be over one day. And everything is gonna back to normal. And we’re gonna go out. We’re gonna go out drinking. You and me.

Non sfugga l’apparente casuale accostamento tra queste due parole. In realtà, se c’è una cosa che la serie ha sottolineato implicitamente in questi primi nove episodi è proprio quanto queste siano strettamente collegate. La sottile ambiguità delle prime puntate si è trasformata in fretta in aperta e mal celata ipocrisia. Non solo per il comandante Waterford, che comunque resta il personaggio più rivoluzionato di tutti, ma per tutti i protagonisti. Dalla moglie semi-consapevole dei tradimenti del marito, passando per Nick che di giorno è un eye mentre le notti le trascorre insieme a Offred, fino ad arrivare alla protagonista stessa che ha saputo riformare la sua catena più grande (il sesso) in uno strumento di controllo e di affermazione sugli altri uomini della casa. Nessuno dei protagonisti si esime dal partecipare a questo gioco in maschera e di dissimulazione di intenti, con il risultato tangibile di essere tutti schiavi e prigionieri di una versione distorta e poco veritiera di se stessi. Anche grazie al sapiente utilizzo dei flashback si è visto lungo tutta la stagione come i desideri e i sogni passati restino lontanissimi dalla loro attuazione presente e questo è un infausto destino condiviso da entrambi i lati dei rapporti di potere, dominanti e dominati.
L’unica che per la sua innocenza si è sottratta a questa falsificazione del proprio animo è invece Janine e risulta quindi oltremodo convincente la fine di questo episodio nove. La vera vittima del terrore di Gilead non è la protagonista che si è imparato a conoscere in ogni sfaccettatura, ma una povera ragazza sfregiata che in virtù dell’amore sconfinato per il proprio figlio sceglie di non sottostare alla tirannia. Il salto nel vuoto che il finale di “The Bridge” rappresenta non è originato da un attivismo politico, di protesta: così come diceva Moira in “Jezebels” è l’unica via di uscita che è concessa a chi non vuole partecipare – così come fece il Catone dantesco – a questo pirandelliano gioco delle parti.

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • Elizabeth Moss ottima in versione femme fatale… 
  • Niente didascalismi a livello tecnico
  • La sessualità come strumento di potere
  • Janine anti-eroina
  • L’evoluzione di Waterford
  • … ma a tratti è anche fin troppo naive 
  • L’assenza di Luke peserà probabilmente sul prossimo episodio
  • Manca ancora un volto tangibile alla resistenza

 

Praised be, bitch.

 

Jezebels 1×08 ND milioni – ND rating
The Bridge 1×09 ND milioni – ND rating

 

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