The Leftovers 3×08 – The Book Of NoraTEMPO DI LETTURA 11 min

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Non capita spesso di avere a che fare con serie televisive come The Leftovers. Alcuni spettatori diranno “per fortuna”, spettatori che magari risentono ancora del controverso finale di un’altra opera, sempre targata Lindelof, e che in questo series finale hanno vissuto nuovamente la stessa insoddisfazione che, sette anni fa, provarono al termine di “The End”; altri invece, a circa una settimana dalla messa in onda di “The Book Of Nora”, saranno ancora disperati all’idea di non rivedere più personaggi come Kevin Garvey, Matt Jamison o Nora Durst, entrati nel cuore di spettatori compulsivi nonostante il breve percorso compiuto dalla serie; spettatori che, invece, vedranno in “The Book Of Nora” la chiusura perfetta di una triennale esperienza di visione molto più simile, dal punto di vista del coinvolgimento spettatoriale, ad una vera e propria esperienza di vita collettiva. Probabilmente gli stessi spettatori che, invece, quel 23 Maggio 2010 videro in “The End” la cosiddetta quadratura del cerchio.

Matt: I’m scared of what’ll happen when i go back to Mary. And I’m scared of the chemicals they’re going to put in my body to try and make me better, and I’m scared it won’t work. I’m scared of dying, Nora. I’m scared my son will grow up without me, forget my face, forget the sound of my voice. But most of all, I’m scared that I’ll survive. Because if I do… how can I ever stand in front of a room full of people and convince them that I have the answers when I have no idea what the fuck I’m talking about?

“The Book Of Nora”, pur essendo costruito secondo la formula dell’episodio monografico, tanto cara agli autori in questa terza stagione, risulta in fin dei conti più corale rispetto a quanto ci si possa aspettare leggendone il titolo. Nora non è l’unica a trovare una conclusione al suo (triennale) percorso di vita e, proprio in questo, la serie riesce ad evocare la medesima sensazione di compiutezza percepita al termine dell’episodio finale di Lost, che già troppo ci è capitato di citare fin qui. Non ce ne vogliano i lettori che ancora non hanno intrapreso questa essenziale opera di recupero, d’ora in avanti cercheremo di limitare al minimo i parallelismi con i naufraghi del volo 815.
A partire da Nora e dalla sua decisione di partecipare all’esperimento, scaturita dalla necessità di ricongiungersi ai familiari scomparsi, ogni personaggio giunge finalmente a destinazione: Laurie e Kevin Garvey Senior prendono nuovamente il controllo delle proprie vite – per l’ex signora Garvey questo significa allontanare definitivamente l’ombra del suicidio, per il secondo invece vuol dire abbandonare una volta per tutte l’ambizione di essere il salvatore del mondo – traendo tutta la propria forza dall’affetto delle persone care; Kevin, tornato mortale in seguito agli sviluppi di “The Most Powerful Man In The World (And His Identical Twin Brother)“, si mette alla ricerca del grande amore perduto molti anni prima, trovando finalmente un giusto epilogo alla tribolata storia d’amore con Nora; infine Matt, al centro di uno dei due momenti più intensi e toccanti dell’episodio, affronta l’ultima conversazione con la sorella prima del suo viaggio tra i due mondi, conversazione che, plausibilmente, sarà anche l’ultimo contatto con Nora prima della sua morte. Tutti i personaggi trovano in questo finale di serie la giusta conclusione, che potrà piacere o non piacere, soddisfare o non soddisfare, ma in nessun caso potrà risultare inadeguata.
Uno su tutti il Matt Jamison di Christopher Eccleston, al centro di uno dei monologhi più intensi e significativi regalati dalla serie in questi tre anni di messa in onda. In seguito all’esperienza vissuta nel delirante “It’s A Matt, Matt, Matt, Matt World“, ci si trova di fronte ad un uomo molto cambiato, privato della sua cieca fede religiosa e alle prese con la più umana delle paure, quella legata all’inevitabile destino dell’essere umano. Una paura che attanaglia ciascuno di noi, legata a doppia mandata al terrore di venire dimenticati da coloro che seguiranno e che qui, proprio in virtù della rinnovata condizione di Matt, si configura come liberazione da un’esistenza vissuta nel dubbio e nell’incertezza. Un triste lieto fine, insomma. Ossimoro che, proprio in virtù della sua contraddittorietà di fondo, riesce a descrivere perfettamente il tormentato cammino intrapreso dal personaggio di Eccleston, da sempre alla ricerca di una conferma circa le sue ferme convinzioni e giunto invece alla fine dei suoi giorni nella più totale incertezza.

Nora: Over here, we lost some of them. But over there, they lost all of us.

Nonostante la relativa coralità da noi menzionata, protagonista indiscussa dell’episodio, non soltanto dal punto di vista del minutaggio a lei dedicato, è Nora. L’episodio, già dal titolo, si pone in continuità con “The Book Of Kevin“, première stagionale al termine della quale ci veniva mostrato, in un breve flashforward, una Nora visibilmente invecchiata rinnegare Kevin con estremo distacco (“Sarah, does the name Kevin mean anything to you?” / “No“).
Il recensore ammette fin da principio una forte antipatia nei confronti del personaggio interpretato da Carrie Coon, antipatia che non ha nulla a che vedere né con l’interpretazione dell’attrice, sempre impeccabile nella rappresentazione del dolore legato alla dipartita dei suoi cari e altrettanto magistrale nell’esternazione della propria sofferenza una volta realizzato di non appartenere al “mondo parallelo” da lei esplorato, né tanto meno con l’ottima caratterizzazione operata dagli autori sul character, al centro di uno dei percorsi più travagliati visti in questa opera e, proprio in virtù di questa peculiarità, anche uno dei più solidi e credibili. Si tratta forse di un’antipatia suscitata irrazionalmente, il classico astio “a pelle”, tant’è che, terminata la prima visione, questa antipatia ha in qualche modo ostacolato il reperimento di significati secondari nascosti dall’inconsueta linearità dell’episodio. Per fortuna così non è stato per la seconda visione – che tra l’altro consigliamo caldamente al termine di ogni episodio della serie – portatrice di un rinnovato senso di piacere che trova il suo picco massimo nell’altro momento chiave della puntata: il toccante faccia a faccia tra Nora e Kevin.
Nel giro di dieci minuti, resi ancor più potenti, paradossalmente, dalla mancanza di un riscontro visivo di quanto accaduto a Nora nel corso del suo viaggio dall’altra parte, la donna ci racconta una storia di fatiche e sofferenze, in linea con la travagliata esistenza di una madre/moglie che, nel tragico giorno della grande dipartita, ha perso non soltanto ogni persona cara in un battito di ciglio, ma anche una parte di se stessa. Nel tentativo di riappropriarsene, però, qualcosa va storto e, credendo alle sue parole esattamente come Kevin, anche noi ci ritroviamo a fare i conti con il dolore di una donna distrutta dalla consapevolezza di aver perduto per sempre un pezzo importante della propria esistenza, non appartenendo, di fatto, a quel mondo popolato soltanto dal 2% della popolazione. Un mondo che non guarda in faccia a nessuno e che continua ad andare avanti con o senza di lei e che, in fin dei conti, non differisce granché dal mondo in cui alla fine è tornata. Nessuno su questa terra è indispensabile, il mondo non si ferma a celebrare la scomparsa di uno dei suoi tanti occupanti e, per quanto il dolore per la scomparsa di una persona cara possa sembrare insuperabile, andare avanti risulta essere l’unica soluzione attuabile per godersi a pieno il poco tempo che ci è concesso di vivere.
Il racconto di Nora, in particolare la faccenda legata alla dipartita quasi totale avvenuta nell’altro mondo, lascia così emergere due tematiche cruciali ai fini della comprensione del lavoro compiuto dal duo Lindelof/Perrotta, a tutti gli effetti annoverabili tra i migliori storyteller della serialità televisiva contemporanea: la prima riguarda la già menzionata relatività della vita e della nostra percezione in relazione ad essa, la seconda, invece, riguarda l’impossibilità, o meglio l’assurdità, nel voler a tutti i costi trovare un senso ad ogni cosa, un concetto su cui molte persone non hanno mai riflettuto (o forse non hanno mai voluto riflettere) e che invece, nella sua immediatezza, ci spinge a godere di quanto accade attorno a noi, rassegnandoci al fatto che, molto semplicemente, una cosa accade perché accade e il reperimento di un senso non servirà né a cambiare le cose né a procurarci una reale soddisfazione.
La ricerca di un senso rispetto ad eventi totalmente casuali – la dipartita non è altro che un’estremizzazione di questo concetto – conduce quasi sempre allo scontro, come hanno dimostrato appunto i conflitti con i colpevoli sopravvissuti – rappresentazione simbolica dell’arroganza sottesa a movimenti e culti religiosi o pseudo-religiosi che, sulla base di credenze veritiere al pari di Babbo Natale e la fatina dei denti, si permettono di elevarsi a custodi della verità assoluta – ed è perciò inutile ricercare una motivazione razionale, o comunque collettivamente percepita come tale, in un’esistenza che, di per sé, non ha il benché minimo senso. La vita va semplicemente vissuta e l’unico senso ad essa attribuibile è proprio la mancanza di senso stesso, altrimenti il rischio è di fare la fine di Matt: vivere una vita alla ricerca di una spiegazione, lottare con ogni mezzo pur di agguantarla, per poi abbandonare questo mondo senza alcuna risposta, schiacciato dal peso di quell’insensatezza che andrebbe accolta invece che combattuta.

See, if only life was just about love. But it’s about temptation. It’s about failure. It’s about weakness. […] It’s about sin. And everybody here knows I’ve made my fair share of mistakes, but there is a very big difference between a sin and a mistake. Because a mistake is just fucking up, hmm? But a sin – hoo hoo – a sin is when you know something is wrong and you do it anyway”.

Si è deciso di aprire questo ultimo paragrafo della recensione con una citazione molto significativa, seppur uscita dalla bocca di un personaggio più che secondario – Eddie – che racchiude dentro di sé la chiave interpretativa di alcuni avvenimenti accaduti in questo fantastico epilogo, oltre che rappresentare, e questo lo si intuisce dagli sguardi che si scambiano Nora e Kevin durante il monologo dello sposo, il punto di contatto che porterà nei minuti conclusivi dell’episodio al lieto fine della storia d’amore tra i due protagonisti.
In questo breve estratto del discorso dello sposo si parla di errori e peccati, due elementi di cui la serie è particolarmente ricca e che hanno contraddistinto praticamente ogni character della serie. Mediante le onnipresenti collanine di perle indossate dagli invitati alla festa di matrimonio, gli autori vogliono appunto rappresentare – attraverso l’uso di una simbologia decisamente originale –  i peccati “indossati” dall’uomo quotidianamente, peccati che poi verranno “portati” dalla capra, successivamente bloccata alla staccionata e lasciata al suo destino proprio a causa loro.
Solo Nora risulta essere “priva di peccato”, rifiutando le collane al suo arrivo alla festa, finendo poi col cadere, letteralmente, per colpa di una di esse, ostacolo inaspettato lungo il suo cammino. Il peccato, nell’accezione intesa da Eddie, è un errore commesso con cognizione di causa, ma attraverso questa improvvisa caduta ci viene fatto presente che non sempre si pecca sapendo di peccare. Ma ciò non significa che per queste persone non ci sia possibilità di redenzione. Alla vista di quell’essere innocente, portato alla rovina per colpa di “peccati” non suoi, Nora decide di percorrere quella strada ripida e scivolosa per liberarlo, cadendo, rialzandosi, trascinandosi e finendo col raccogliere lei stessa il peso di quei “peccati”, prendendosene carico. Una simbologia neanche troppo velata, che vede nuovamente la donna prendersi carico di tutte quelle sofferenze che per troppo tempo hanno segnato la sua esistenza e la cui unica cura, giunti a questo punto, è proprio quella di accogliere nuovamente Kevin nella sua vita, concedendosi di tornare ad amare.
Al termine del toccante faccia a faccia con Kevin abbiamo, a chiudere definitivamente il cerchio, l’ennesimo richiamo biblico, il ritorno delle colombe (dopo il “diluvio”) che, seppur sprovviste del biblico ramoscello d’ulivo, portano con sé il medesimo significato: la quiete dopo la tempesta. Quiete che giunge sulla sempre meravigliosa Departure di Max Ritcher, melodia che difficilmente riusciremo a cancellare dalla nostra mente.

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • Il cerchio si chiude nel miglior modo possibile
  • Monologo di Eccleston e dialogo tra Nora e Kevin, due dei momenti  più alti della serie
  • La spiegazione di Nora, metafora sulla relatività della vita
  • Vorremmo dire nulla, e lo diciamo, ma come accadde con Lost, siamo sicuri che questo finale avrà reso molti spettatori scontenti

 

Giunta alla sua conclusione, forse fin troppo precocemente, The Leftovers riesce comunque a chiudere il suo percorso nel miglior modo possibile, guadagnandosi di diritto un posto nell’olimpo delle serie televisive dell’ultimo decennio. Unico rammarico, la poca attenzione del pubblico mostrata nei confronti di un prodotto che, nel suo piccolo, ha messo in evidenza l’importanza, oggigiorno, del lavoro di scrittura, soprattutto in relazione allo sconfinato bacino seriale in cui ci ritroviamo a sguazzare attualmente, segnato dall’ingombrante presenza di titoli che, a parte il nome altisonante, non hanno granché da regalare al pubblico.

 

The Most Powerful Man In The World (And His Identical Twin Brother) 3×07 0.80 milioni – 0.3 rating
The Book Of Nora 3×08 1.05 milioni – 0.4 rating

 

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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.

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