La seconda stagione di Squid Game, e questo quinto episodio in particolare, rappresenta un esempio lampante di come un successo globale possa trasformarsi, prevedibilmente, in un prodotto serializzato privo dell’intensità emotiva e narrativa che aveva caratterizzato la sua prima stagione – che comunque non era nulla di nuovo se si guarda al campionario delle narrazioni, in particolare orientali, basate sul concetto di Battle Royale (guardatevi, tanto per dirne un paio, i trailer di As The Gods Will e Battle Royale). Nonostante il potenziale narrativo e visivo che questa seconda stagione avrebbe potuto mettere in mostra, questo episodio non fa altro che confermare l’evidente – e prevedibile ancor prima che la stagione iniziasse ufficialmente – stagnazione nella capacità creativa della produzione, che sembra essersi arenata su formule ripetitive, personaggi privi di qualsivoglia carisma (e interpretati da attori cani che dovrebbero limitarsi al K-Pop) e una scrittura ben poco incisiva e senza il minimo senso logico, rivelando fin da subito l’evidente insensatezza dietro alla decisione di produrre una seconda stagione di uno show che aveva già detto tutto con il suo primo arco narrativo.
Ah già, senza contare la totale assenza di coerenza nel voler rinnovare una serie che doveva essere una critica al consumismo e al turbo-capitalismo sfrenato che muove la società contemporanea, proprio per, sorpresa sorpresa, ragioni di matrice capitalistica.
ANCORA UN GIOCO UNA STAGIONE
La prima stagione di Squid Game era riuscita a conquistare il pubblico globale grazie alla sua combinazione di brutalità, critica sociale e un parco personaggi perlopiù interessanti. Tuttavia, con la seconda stagione, il progetto sembra aver perso di vista la sua natura originaria diventando, progressivamente, un prodotto destinato a soddisfare unicamente le esigenze del mercato piuttosto che quelle della narrazione. Questo quinto episodio, in particolare, rappresenta una sintesi di questa involuzione: un amalgama di idee riciclate e momenti privi di impatto emotivo, che si svolge su uno sfondo visivamente accattivante ma narrativamente sterile.
La trama segue lo schema già consolidato della serie: i partecipanti affrontano un nuovo gioco mortale, intervallato da riflessioni sulle loro motivazioni e brevi flash sui subplot secondari. Tuttavia, mentre la prima stagione era riuscita a trasformare giochi infantili in metafore potenti, questa seconda stagione manca di freschezza e di significato e quindi l’impatto emotivo dei giochi risulta attenuato dalla mancanza di un’autentica tensione. La sceneggiatura sembra accontentarsi di ripetere schemi già visti, privando il pubblico, prevedibilmente, della sorpresa e della profondità che avevano caratterizzato – in parte – la prima stagione.
Se c’è un elemento che si salva, questo è la capacità della serie di creare un’estetica visivamente distintiva: i set colorati e surreali continuano a essere un piacere per gli occhi, ma da soli non bastano a sostenere una narrazione debole. La regia cerca di infondere tensione nelle scene di gioco, ma senza personaggi coinvolgenti e una trama solida, anche il miglior comparto visivo finisce per risultare sterile.
MORTACCI TUA, MA TU SEI UN CANE SENZA APPELLO!
La gestione dei personaggi è uno dei punti deboli più evidenti. Se nella prima stagione figure come Kang Sae-byeok, Oh Il-nam e Ali Abdul erano riuscite a catturare l’attenzione del pubblico grazie alla loro profondità e alla complessità morale, i nuovi personaggi appaiono soltanto come mere caricature monodimensionali. Il figlio in cerca di redenzione e la madre che partecipa al gioco per salvarlo sembrano ispirati più dalla necessità di emulare il successo di Squid Game: The Challenge che da una reale volontà di arricchire la narrazione. La ragazza incinta o la donna trans sembrano più archetipi che individui: le loro azioni raramente generano empatia o comprensione, rendendo praticamente impossibile preoccuparsi per il loro destino; Thanos sembra uscito da un live-action di qualche anime di serie B, all’interno del quale risulterebbe comunque estremamente caricaturale e fastidioso, e anche Seong Gi-hun, il protagonista della serie, soffre di una scrittura poco ispirata. Da eroe tormentato della prima stagione, qui si trasforma in un personaggio robotico, privo di sfumature emotive, e incapace di trasmettere il carisma necessario per sostenere il peso della trama – ma soprattutto fa venire voglia a chi guarda di tifare per i cattivi e incitare al massacro collettivo.
Nota a margine: sebbene la presenza del personaggio di Hyun-ju rappresenti un tentativo di includere tematiche LGBTQ+ all’interno della serie, la scena in cui chiede agli altri partecipanti di girarsi per non guardarla durante un momento di vulnerabilità appare inverosimile e fuori luogo in un contesto in cui si rischia la vita letteralmente ogni secondo, rivelando (altra sorpresona) l’ipocrisia dietro alla consueta inclusivity forzata, vista, tra l’altro, la scelta di affidare il ruolo a un attore cisgender, Park Sung-hoon, che immediatamente ha sollevato critiche sulla rappresentazione e sull’autenticità del personaggio.
ADESSO GLI FACCIO L’INGANNO DELLA CADREGA
Un’altra grande delusione riguarda la trama poliziesca, che in teoria avrebbe dovuto aggiungere profondità e una prospettiva esterna al gioco. Tuttavia, questa sottotrama si rivela frammentata, prevedibile e mal gestita. L’ispettore Hwang Jun-ho, sopravvissuto miracolosamente agli eventi della prima stagione – recuperato in coma attaccato a una boa, sulla quale è stato alla deriva per 10 giorni. Seriamente? – si ritrova coinvolto in una caccia all’isola che risulta del tutto scontata e priva di mordente. La figura del capitano della nave – il cui tradimento futuro è talmente telefonato da dare quasi fastidio – mina ulteriormente la credibilità di questa linea narrativa; senza poi contare la decisione di trascurare il confronto diretto tra Jun-ho e suo fratello, il Front Man, privando la storia di uno dei suoi conflitti più promettenti, inserendolo invece come giocatore n°001, per poi fare un copia/incolla della prima stagione che poteva fregare solo quel pirla di Seong Gi-hun.
Infine, la critica al capitalismo e alle disuguaglianze sociali, un tempo vibrante e centrale, si riduce a una ripetizione stanca, incapace di offrire nuove chiavi di lettura o di evolversi in modo significativo. Non vi è alcuna nuova prospettiva, né un approfondimento che giustifichi realmente il ritorno ai giochi – qual era esattamente il tuo piano geniale, Seong Gi-hun? Persino il meccanismo di voto introdotto in questa stagione (che ha luogo dopo ogni gioco invece che una volta sola, dopo “un, due, tre stella”, come avveniva nella prima stagione) pur avendo il potenziale per esplorare il concetto di “tirannia della maggioranza”, viene sfruttato in modo superficiale e ripetitivo, perdendo molto rapidamente il suo impatto.
Anche i giochi stessi, che nella prima stagione fungevano da potenti metafore, sembrano ora ridotti a semplici momenti di sensazionalismo visivo. L’assenza dei VIP e di un’esplorazione più dettagliata delle dinamiche interne all’organizzazione del gioco priva inoltre la stagione di un’opportunità cruciale per ampliare il proprio universo narrativo, che in questo secondo atto subisce invece una frustrante reiterazione delle medesime dinamiche.
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“Ancora Un Gioco” incarna tutte le debolezze di una seconda stagione che fatica a trovare una propria identità. La mancanza di innovazione, la scarsa profondità dei personaggi e una trama frammentata e prevedibile trasformano quello che era stato un fenomeno culturale in un prodotto derivativo e poco ispirato. Con una scrittura che si limita unicamente a capitalizzare sul successo della prima stagione, Squid Game 2 non solo fallisce nell’espandere il suo universo narrativo, ma ne distrugge completamente la credibilità, tradendo la propria essenza per inseguire un pubblico sempre più vasto e sempre meno esigente.
Al netto di quanto visto finora, la seconda Stagione di Squid Game si presenta quindi come un’occasione mancata, una dimostrazione di come l’eccesso di commercializzazione possa svuotare un’opera della sua forza originale, e se la prima stagione doveva essere un grido di protesta contro le ingiustizie del sistema, questa seconda appare più come un’eco distante, destinato, fortunatamente, a svanire nel nulla senza lasciare alcuna traccia.
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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.