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The Brutalist

3.8
(6)
Quando l’architetto visionario László Toth e sua moglie Erzsébet fuggono dall’Europa del dopoguerra nel 1947, le loro vite vengono cambiate per sempre da un misterioso e ricco cliente.

 

The Brutalist è l’ultimo film diretto da Brady Corbet, un imponente racconto costellato da drammi e dolore dalla lunghezza esorbitante, ma con la grossa pecca di risultare inconcludente tanto da far pensare che 30-40 minuti in più non avrebbero fatto poi così male per dare ulteriore respiro ad un finale molto compassato e non così massiccio come il resto degli altri capitoli in cui è suddivisa la pellicola.
Anche la tematica dell’architettura, sfruttata come metafora all’interno del film, resta molto sullo sfondo e non sfruttata adeguatamente. O meglio: non è sfruttata in maniera adeguata tenendo in considerazione che si tratta del cardine del film. Non c’è però una mancanza di temi trattati: drammi famigliari, droga, barbonaggio, povertà, malattie, disabilità, violenza sessuale, guerra di religione, suicidio, mobbing, scontro generazionale e razzismo.
Molti elementi, un gran minutaggio eppure molti aspetti risultano sbiaditi, approcciati in maniera molto superficiale e quindi non sufficienti. L’unica certezza è la mastodontica costruzione del film, di inoppugnabile bellezza sotto molti punti di vista.

This place is rotten. The landscape, the food we eat. This whole country is rotten.

Il film è un lungo e drammatico percorso che cerca di raccontare al pubblico la vita di László Tóth (interpretato da Adrien Brody), un rinomato (in Europa) architetto ungherese che è scampato ai campi di concentramento e cerca ora la fortuna negli Stati Uniti così da potersi ricongiungere alla moglie Erzsébet e alla nipote Zsòfia e iniziare finalmente una nuova vita, mettendosi alle spalle gli orrori dell’Olocausto. La pellicola parte nel 1947 e accompagna lo spettatore, attraverso mille disgrazie e avvenimenti, fino alla prima Mostra internazionale di architettura di Venezia, nel 1980.
The Brutalist assume i contorni dell’ennesima storia relativa al sogno americano che si distorce con il passare del tempo, rimodellando quelle che erano speranze e attese in dipendenza da eroina, abbandono, povertà assoluta.
Un ritratto capovolto del futuro di cui la Statua della Libertà mostrata all’inizio ne diventa l’emblema chiarificatore.
Una storia che quindi non ha nulla di particolarmente nuovo o innovativo, volendo essere sinceri, ma che cattura per la particolareggiata costruzione scenica. Un esempio? L’opening del film con uno splendido piano sequenza praticamente al buio in cui la camera segue i passi di László, intento ad uscire da sottocoperta per ammirare la bellezza del futuro che si appresta ad accoglierlo: gli Stati Uniti d’America. I sorrisi di tutti i profughi riflettono le speranze, ma purtroppo, come avrà modo di scoprire anche lo spettatore, la realtà saprà essere molto più arcigna e cattiva.
Un altro aspetto registico ben utilizzato sono le luci e le ombre: queste ultime celano a László le persone che stanno per amplificare ulteriormente il peso del suo dolore (suo cugino Attila, quando lo caccia di casa, ma anche Harrison Van Buren, prima di abusare di lui); le luci, invece, colgono i momenti in cui la vita per László sembrava pronta a prendere delle svolte positive (il secondo incontro con Harrison, ma anche mentre sta ultimando la ristrutturazione dello studiolo in casa Van Buren).
I colori spesso entrano in conflitto con con l’asettico grigio del cemento (tipico del brutalismo) e si tratta di un qualcosa genuinamente studiato per amplificare l’algida freddezza di László-lavoratore rispetto al László-amante. Quest’ultimo si scorge inizialmente attraverso le lettere scritte Erzsébet, ma con l’arrivo di quest’ultima in America tutto precipita e i due personaggi si fondono insieme, oscurandosi vicendevolmente.

When dogs get sick, they often bite the hand of those who fed them, until someone mercifully puts them down.

Rifacendosi al concetto di architettura brutalista dato nel 1956 da Smithson, questa corrente cerca di trarre della “rozza poesia” dall’imponenza delle costruzioni, dalla totale assenza di ornamenti o abbellimenti strutturali, ma dalla semplicità di materiali quali calcestruzzo, vetro, acciaio e cemento.
A suo modo The Brutalist ricerca la poesia del proprio racconto nella massiccia e complicata vita della famiglia Tóth, appoggiandosi al corposo minutaggio di cui si è ampiamente parlato.
Il brutalismo ne diventa quindi una metafora reale, tangibile, mentre l’architettura -pur rimanendo sullo sfondo- non viene compiutamente presa in considerazione. La costruzione dell’Istituto Van Buren è la rappresentazione perfetta del film, in definitiva: un prodotto architettonico enorme, complicato, elaborato e studiato in ogni minimo particolare, ma lasciato malamente incompiuto a causa delle numerose disgrazie che sono occorse durante i lavori. Vedrà visto parzialmente ultimato dallo spettatore solo nel finale, ma non utilizzato, tradendo l’obiettivo ultimo della costruzione, un po’ come il finale che tradisce le premesse e le attese createsi durante la visione mostrandosi invece decisamente sottotono.

My uncle is, above all, a principled artist. His lifelong ambition was not only to define an epoch but to transcend all time. In his memoirs, he described his designs as machines with no superfluous parts, that at their best, at his best, possessed an immoveable core; a “Hard Core of Beauty.” A way of directing their inhabitant’s perception to the world as it is. The inherent laws of concrete things such as mountains and rock define them. They indicate nothing. They tell nothing. They simply are.

Il film si suddivide in quattro sezioni: Overture, Part 1: The Enigma of Arrival, Part 2: The Hard Core of Beauty e Epilogue. Una scelta che permette di snellire, per quanto possibile, la visione pur sottolineando implicitamente l’imponenza dell’elaborato.
Adrien Brody, che interpreta László Tóth, ad un certo punto sembra diventare Atlante: da solo si sobbarca il peso dell’immaginario di Corbet, un compito a cui l’attore statunitense si presta con estrema dovizia ed energia.
Felicity Jones (Erzsébet Tóth) e Raffey Cassidy (Zsófia e successivamente la figlia sempre di Zsófia, nel 1980) ultimano il ritratto di famiglia, ma con delle prestazioni attoriali lasciate molto sullo sfondo e da puro e semplice contorno del protagonista (Brody). Motivo per cui la nomination agli Oscar per Felicity Jones risulta puramente ornamentale e nulla di più.
Guy Pearce, il magnate Harrison Van Buren, mostra luce ed ombra del suo personaggio in maniera egregia, addentrandosi nella psiche e mostrandone i limiti caratteriali (per esempio quando si fa beffe del suo stato da privilegiato sminuendo László a tavola).
Inutile dire che i personaggi secondari sono innumerevoli: Joe Alwyn (Harry Lee Van Buren), Alessandro Nivola (Attila), Emma Laird (Audrey), Stacy Martin (Maggie Van Buren), Isaach de Bankolé (Gordon).

We tolerate you.

La musica, che si palesa fin dalla primissima scena, è rozza, animalesca e diventa il rumore/suono di sottofondo che accompagna lo spettatore durante la visione. Il compositore è Daniel Blumberg con cui Corbet aveva già in precedenza collaborato. La scelta stilistica è ricaduta non solo sui classici strumenti musicali (piano, tromba, sassofono), ma anche qualcosa di più sperimentale come il sintetizzatore utilizzato nell’epilogo del film.
La particolarità è che Corbet voleva che la musica non colpisse direttamente solo lo spettatore, ma anche gli attori in scena: Blumberg ha suonato dal vivo il piano durante le riprese e i vari rumori di scena (per esempio quelli del treno di passaggio o i banali rumori della città che si anima) vennero inclusi all’interno della versione finale della traccia.
Il film è stato girato utilizzando il processo VistaVision unitamente a telecamere che riprendono orizzontalmente su pellicola da 35mm. Il materiale girato è stato poi digitalizzato, con l’intenzione di realizzare anche stampe per una proiezione in 70mm, un formato che ha la stessa altezza e rappresentava il modo più pratico per mantenere le dimensioni originali del fotogramma VistaVision nella proiezione su pellicola. Corbet ha spiegato che la scelta del VistaVision è stata anche estetica: “It just seemed like the best way to access that period (1950s) was to shoot on something that was engineered in that same decade”.
Menzione a parte per quanto riguarda il lavoro fatto nei dialoghi/monologhi in lingue ungherese. Il montaggio è stato completato dal montatore ungherese Dávid Jancsó che in una intervista ha rivelato che sono stati utilizzati strumenti di intelligenza artificiale (Respeecher) per migliorare l’autenticità dei dialoghi in ungherese di Adrien Brody e Felicity Jones. Entrambi gli attori hanno ricevuto un coaching sul dialetto, ma i realizzatori volevano perfezionare ulteriormente la loro pronuncia (“so that not even locals will spot any difference“). Considerato che il lavoro di doppiaggio non aveva dato i risultati sperati, sono state registrate le voci di Brody e Jones nel software di Respeecher; successivamente, Jancsó, essendo ungherese madrelingua, ha inserito anche la propria voce per affinare le parti più complesse del dialetto.

No matter what the others try and sell you, it is the destination, not the journey.


The Brutalist è, ripetendo nuovamente quanto già detto, una mastodontica produzione. Pensata, progettata, costruita e messa in piedi da Brady Corbet con l’aiuto in scena di un Adrien Brody altrettanto convincente. Ritenere però non sufficiente le quasi tre ore di messa in onda, risulta assurdo, eppure il film sembra fallire nella chiusura adeguata del cerchio narrativo iniziato nel 1947. La moltitudine di elementi narrativi presi in esame non facilita sicuramente il lavoro dell’epilogo. Il film si intrufola negli aspetti più reconditi e complessi dell’animo umano, estraendone dolori e miserie senza tempo: una visione non semplice e che demolisce lo stato d’animo dello spettatore minuto dopo minuto, mentre sullo schermo la vita della famiglia Tóth viene smembrata pezzo dopo pezzo.
Eppure, da una progettazione tanto rozza e brutalista, esattamente come per l’architettura, viene estratta della poesia. Rozza, sì, ma pur sempre poesia.

 

TITOLO ORIGINALE: The Brutalist
REGIA: Brady Corbet
SCENEGGIATURA: Brady Corbet, Mona Fastvold
INTERPRETI: Adrien Brody, Felicity Jones, Guy Pearce, Joe Alwyn, Raffey Cassidy, Stacy Martin, Emma Laird, Isaach de Bankolé, Alessandro Nivola
DISTRIBUZIONE: A24, Universal Pictures
DURATA: 215′
ORIGINE: USA-Ungheria-UK, 2024
DATA DI USCITA: 06/02/2025

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Conosciuto ai più come Aldo Raine detto L'Apache è vincitore del premio Oscar Luigi Scalfaro e più volte candidato al Golden Goal.
Avrebbe potuto cambiare il Mondo. Avrebbe potuto risollevare le sorti dell'umana stirpe. Avrebbe potuto risanare il debito pubblico. Ha preferito unirsi al team di RecenSerie per dar libero sfogo alle sue frustrazioni. L'unico uomo con la licenza polemica.

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