L’episodio finale di The Crowded Room è anche uno dei migliori in assoluto della serie (anche per via di un inizio di stagione piuttosto traballante e lento) insieme all’omonimo settimo episodio “The Crowded Room” che ha segnato il punto di svolta della serie. Un punto di svolta tardivo perché arrivato nella fase finale ma che, per chi non ha abbandonato lo show prima, ha rappresentato il momento della rivalsa.
Un po’ come quel settimo episodio, anche questo series finale riesce nell’intento di soddisfare uno spettatore affaticato ma comunque mentalmente pronto ad approcciarsi all’ultima ora di visione (43 minuti in questo caso se si vuole essere veramente precisi) che chiude in maniera più che egregia il percorso che ha portato a scoprire la verità dietro la realtà di Danny Sullivan, che va ricordato essere una versione cinematografica di Billy Milligan.
Stan: “Not your address, your name. Are you Danny Sullivan?“
IL FASCINO DEI PROCESSI AMERICANI
Parte del motivo per cui “Judgement” funziona, e più in generale vale anche per gli ultimi episodi visti, è dovuto all’impatto scenico e narrativo del processo a Danny. È infatti innegabile che praticamente qualsiasi prodotto televisivo o cinematografico acquisisca tutta un’altra aura non appena si varcano le soglie di un tribunale e il processo all’imputato Tal Dei Tali incomincia.
Il dover convincere una giuria, l’ordine con cui i testimoni vengono chiamati a depositare la propria testimonianza, la gestione della relazione con il giudice e lo studio della giuria ha un fascino senza tempo per il pubblico, specialmente considerando quanto questo tipo di processi sia distante da quello italiano o più in generale europeo. La teatralità dei processi americani sembra quasi fatta apposta per la trasposizione su piccolo/grande schermo e The Crowded Room ne ha chiaramente beneficiato nel migliore dei modi visto che, fondamentalmente, l’ingresso nelle aule del tribunale ha cambiato genere allo show. Per fortuna.
Ovviamente tutto funziona meglio se ci sono attori che riescono a recitare come Dio comanda trasmettendo le rispettive difficoltà e stati d’animo al pubblico e Tom Holland (che tanto si era lamentato di doversi prendere una pausa dalla recitazione dopo la realizzazione di questa miniserie) si erge decisamente sopra tutti in questo episodio. La performance della testimonianza, infatti, può sembrare molto naturale dal punto di vista narrativo ma se ci si sofferma a riflettere sulla difficoltà nel cambiare accento e intonazione, nel modificare lo sguardo e nel sembrare totalmente credibile, allora si può finalmente apprezzare la bravura di Holland che nella prima parte di stagione non era così chiara.
Menzione speciale va fatta anche a Christopher Abbott che, pur con una mimica facciale limitata, buca lo schermo nel suo ruolo, cosa che non si può invece dire per Emmy Rossum.
Rya: “What happened to Danny, what happened to Adam, none of it was Danny’s fault. But he doesn’t know that. His guilt, his shame, they’re keeping him from being able to see what really happened. So we have to show him. That’s what works with Danny. He’s beautiful that way. He will fight you. But when you show him the truth, eventually he will believe you and he’ll be able to see what really happened. And so will the jury.“
Come già detto più volte, la difficoltà di Akiva Goldsman nel trasporre una storia così peculiare è comprensibile, così come è comprensibile la scelta iniziale di lasciare lo spettatore con diversi punti di domanda circa la vera identità di molti (se non tutti) character dello show. Una minore durata dei primi 5 episodi, sia in termini di minutaggio che in termini di puntate, a posteriori avrebbe sicuramente giovato allo show che riesce a migliorare solamente quando cambia genere (da drama a legal) e affronta la realtà dei fatti all’interno della psiche di Danny.
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Akiva Goldsman chiude il suo The Crowded Room in ascesa e con una delle note più positive in assoluto. Il voto più alto è totalmente dovuto all’intensità e al realismo messo in scena in tribunale, a quest’ora si potrebbe parlare diversamente della serie se solo fosse stata più breve e più “reale” sin dall’inizio.
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Fondatore di Recenserie sin dalla sua fondazione, si dice che la sua età sia compresa tra i 29 ed i 39 anni. È una figura losca che va in giro con la maschera dei Bloody Beetroots, non crede nella democrazia, odia Instagram, non tollera le virgole fuori posto e adora il prosciutto crudo ed il grana. Spesso vomita quando è ubriaco.