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Il Buio Oltre La Serie #21 – Generazione Zero: cresciuti in cattività e strappati lungo i bordi

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Noi andavamo lenti perché pensavamo che la vita andasse così: che bastava strappare lungo i bordi, piano piano. Seguire la linea tratteggiata di ciò a cui eravamo destinati, e tutto avrebbe preso la forma che doveva avere. Perché c’avevamo 17 anni e tutto il tempo der mondo.

Per tutti quelli che hanno passato le ultime settimane nascosti sotto un sasso, Strappare Lungo I Bordi è la nuova miniserie distribuita da Netflix, creata, interpretata e diretta da Zerocalcare, con la partecipazione straordinaria di Valerio Mastandrea nel ruolo dell’Armadillo. Un prodotto che rappresenta un’evoluzione della serie di cortometraggi “Rebibbia Quarantine”, creati dal fumettista romano durante il lockdown, rielaborati secondo lo schema narrativo che più o meno contraddistingue tutte le opere di Zerocalcare (il classico “prima ti faccio ridere, poi ti distruggo emotivamente”) e in cui confluiscono alcuni dei personaggi storici delle opere di Michele Rech. La colonna sonora, fiore all’occhiello della serie, spazia dal rock-folk dell’autore della sigla Giancane, a brani pop, al rap francese fino alla musica elettronica, accompagnando lo spettatore in un viaggio meraviglioso che, nello stile di Zerocalcare, intreccia problemi esistenziali comuni a tutte le generazioni di spettatori a parentesi comiche che di solito rappresentano la quiete prima della “tempesta” (aka i fiumi di lacrime che verserete ma che non ammetterete mai di aver versato). Il tutto condito da siparietti in dialetto romanesco – per il quale qualcuno si è anche lamentato ma, considerando la sterilità della polemica, per non dire il mare di cazzate che la gente scrive sui social per ricevere quei 6 secondi di attenzione, si è deciso di optare per un doveroso silenzio in merito – e da continui riferimenti alla cultura pop degli anni ’80/’90 e alla sottocultura nerd in genere.

GENERAZIONE PRECARIA


a cura di Daniele Abbatini

Sara: “Ma te, che obiettivo te sei dato?
Zero: “La domanda mi devasta. La verità è che io non c’ho obiettivi. So perfettamente che mandà i curiculum è n’esercizio, ‘na cosa che me serve a rappresentà me stesso all’interno de ‘n paradigma de integrazione sociale. Tipo che se chiedono a mi madre ‘ma che fa tu fijo?’ lei così po’ risponde ‘mah, sta a mannà i curiculum’, che è mejo de ‘mah, s’ammazza de pippe e se magna 800 plumcake al giorno’.

Il fumettista di Rebibbia sa bene quanto sia difficile rispettare le aspettative che l‘attuale società riversa su di noi e allo stesso tempo quanto sia semplice uscire fuori dal quell’ideale percorso tratteggiato che dovrebbe accompagnare tutti noi verso gli obiettivi prefissati.
Strappare Lungo I Bordi parla di Zero, apparentemente, ma in realtà è evidente come i veri protagonisti siano i giovani (ma non troppo) di oggi che vivono una crisi identitaria e sociale che ormai attanaglia un’intera generazione, vittime di uno storytelling, imposto dall’attuale modello iper-capitalistico, ossessionato da modelli positivi che inseguono il mito del successo ad ogni costo e diffondono la mitologia dell’uomo vincente in grado di ottenere tutto, basta volerlo.
Ecco allora che le storie dei personaggi di Michele Rech diventano più attuali che mai, con Sara costretta a lavori precari e sottopagati mentre aspetta di riuscire a fare l’insegnante e Alice costretta a lasciare Roma per tornare a Biella perché non è più in grado di mantenersi da sola. La serie, tra umorismo e citazioni nerd, racconta dubbi, ansie e paranoie in modo non convenzionale, alternando ilarità e profonda tristezza, facendo emergere il lato nascosto di una vita apparentemente semplice, almeno sulla carta.
Strappare Lungo I Bordi è un ritratto profondamente dolceamaro di una generazione perennemente inadeguata che ci vuole ricordare una cosa che l’attuale società ha dimenticato: non c’è nulla di male ad essere imperfetti, a non rispettare le aspettative imposte dalla società, dagli altri e persino da noi stessi.

DALLA VIGNETTA ALLO SCHERMO, STAVOLTA QUELLO GIUSTO


a cura di Gianvito Di Muro

Strappare lungo i bordi - recensione“Ho pensato che c’era qualcosa di incredibilmente rasserenante nell’essere un filo d’erba. Che non faceva la differenza per nessuno. E non c’aveva la responsabilità per tutti i mali del mondo.”

C’era già stato un tentativo di portare il mondo, tanto ironico e pungente quanto crudo e reale, di Zerocalcare fuori dai “bordi” delle sue graphic novel, col film del 2018 La Profezia dell’Armadillo diretto da Emanuele Scaringi. Fu un fallimento totale, pur considerando già allora il coinvolgimento dello stesso Zero (poi defilatosi, pian piano, per divergenze creative) e di Valerio Mastandrea alla sceneggiatura (mentre l’Armadillo aveva la voce di Valerio Aprea), pur basandosi soprattutto anche in quel caso sulla sua storia più personale, immediata e generazionale (si poteva già trovare Secco, interpretato da un emergente Pietro Castellitto; già si ruotava attorno al tragico legame con l’amore d’infanzia Camille/Alice). Dove la trasposizione non convinse, né critica né tantomeno pubblico, fu probabilmente proprio nella snaturazione del peculiare storytelling di Michele Rech, che poco si confaceva al medium cinematografico, che per forza di cose presenta di di per sé dei limiti, di messa in scena come di linguaggio.
Galeotti, allora, sono stati i già citati cortometraggi sulla pandemia, trasmessi su Propaganda Live, che oltre ad aver allargato ulteriormente il suo bacino di appassionati (che già vantava, nel 2019, un milione di copie vendute dei suoi libri), hanno avuto il merito di rendere più chiaro a tutti (in primis, ad eventuali produttori) quale sia il format audiovisivo più adatto alle “storie di vita vissuta” del fumettista romano. Non è quindi solo il contenuto di ciò che Zerocalcare racconta, ma è soprattutto il modo in cui lo fa che trova un’esaltazione massima nella serie d’animazione. È qui che l’estro allegorico, creativo e irresistibilmente iperbolico dell’autore riesce ad emergere in maniera più efficace e personale (e in cui si capisce che la menzionata e assurda polemica sul linguaggio adottato non ha proprio alcun senso di esistere), tra futuri distopici sulle note “flatulente” di Per Elisa e gustosi quanto geniali easter egg (non staremo qui a elencarveli, ma vi consigliamo la lettura di questo articolo piuttosto esaustivo al riguardo).
La felicità del sodalizio tra le abilità “oratorie” di Zero e il linguaggio seriale la si può infine trovare nel perfetto climax che accompagna Strappare Lungo I Bordi” alla sua conclusione, con la sostituzione della “voce narrante” dell’autore, fino a quel momento onnipresente, a quella “reale” degli altri protagonisti. Un’intuizione che, oltre ad evidenziare naturalmente il momento di massima rottura emotiva dello stesso narratore, rappresenta l’estrema universalità del racconto, in grado di travalicare i confini regionali (e nazionali, grazie anche alla distribuzione streaming by Netflix) e raggiungendo un’intera generazione e il suo profondo disagio esistenziale, diventando orgogliosamente il “nostro” Bojack Horseman.

UNA VITA IMMUTABILE E IMBALSAMATA


a cura di Fabrizio Paolino

È vero che so’ campione de’ schivà la vita, ma perché a me i cambiamenti me mettono ansia. Io vorrei ‘na vita immutabile e imbalsamata, però l’universo e la tassidermia non vanno d’accordo e ogni tanto te ‘o deve sbattere in faccia, coatto e maturo come ‘n regazzino sto universo.

Strappare Lungo I Bordi non dura molto, rendendo tra l’altro il binge-watching della stessa fattibile pressoché per chiunque, pure per quelli che (come il recensore) lavorano nel settore della ristorazione e, esattamente come spiega Zero, hanno il tempo solo pe annà a pippà co ‘n collega che te sta pure sur  cazzo, ma questo passa ar convento se nun voi campà solo pe’ lavorà e pe’ dormì. Assunto che non va preso alla lettera, ma che spiega perfettamente la vita di chi passa ogni weekend segregato in cucina.
Eppure, in sole due ore di serie animata, i temi toccati sono tantissimi, quindi inevitabilmente la scelta sull’argomento da trattare in questo scritto a sei mani non potrà che essere estremamente soggettiva. Ma, d’altronde, ogni opera di Zerocalcare fa della soggettività la sua arma vincente, proprio perché TUTTI abbiamo vissuto le situazioni rappresentate, ma non tutti le abbiamo vissute allo stesso modo. Una delle ragioni principale del successo del fumettista, in grado di descrivere in maniera perfetta i problemi che affliggono chiunque in maniera sempre brillante ed esauriente, analizzando ogni aspetto da molteplici punti di vista così da renderli inevitabilmente universali.
Ed ecco che nel marasma di drammi esistenziali proposti dall’autore emerge prepotentemente quello della paura del cambiamento, del terrore di abbandonare l’abbraccio salvifico di ciò che già si conosce per partire alla ricerca di qualcosa di nuovo in grado di scuotere la propria ordinarietà. E allora, se si tratta di dare una bella scossa alla propria esistenza così da renderla più “emozionante”, sta paura, da dove spunta?
Forse dal fatto che a volte tutto succede talmente in fretta da finire ancora prima di accorgersene? O forse perché per qualcuno raggiungere il proprio equilibrio appare come un traguardo semplicemente difficile da raggiungere, troppo difficile da conquistare? Sarebbe bello poter dare una risposta, ma la realtà dei fatti è che non esiste una verità univoca in grado di rispondere a tutti quanti in maniera esaustiva.
Perché quando non si ha altro che vecchie parole, la cosa migliore da fare è provare a metterle insieme nella speranza che dicano qualcosa di nuovo. Possibilmente di senso compiuto. Alla fine si tratta solo di superare le proprie paure, rendendosi conto del fatto che tutte le volte che ci si assume volontariamente un rischio, indipendentemente dall’esito che ne comporterà, difficilmente ci si pentirà di averlo fatto.
E lo sappiamo che è facile a dirsi (i “grazie al ca…” echeggiano qui gloriosamente), ma bisognerebbe essere “semplicemente” più disposti a rischiare: certe persone mettono in gioco il proprio futuro, altri i propri sentimenti, ma in generale dovremmo semplicemente essere contenti del fatto di esserci messi in gioco, di aver preteso, anche solo per una volta, qualcosa di più da noi stessi. Perché in ultima analisi ciò che conta non è essere (o sentirsi) il migliore, ma di apprezzare tutte quelle piccole cose che ci fanno andare avanti: le piccole vittorie giornaliere, l’appoggio di chi ti è vicino, l’accettazione (anche passeggera) di quella sensazione di oppressione che a volte non ci permette di mettere in atto i milioni di (potenzialmente ottimi) piani partoriti dalla nostra mente, o perfino il più banale dei gesti altruisti, anche se compiuto ipocritamente per risistemare il proprio karma.
A volte il miglior modo per scavare dentro se stessi è quello di farlo attraverso gli occhi di un altro. E se sei fortunato – o quell’altro è un genio come Zerocalcare – magari ciò che vedrai ti piacerà. E se così non fosse, quantomeno ti avrà insegnato qualcosa di utile.

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