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Con l’accordo tra Manfredi e Cinaglia, avvenuto nel finale dello scorso episodio, la serie sembrava destinata a una svolta narrativa anche abbastanza celere, ma per ora così non è stato, visto l’atteggiamento attendista dell’ex capo degli Anacleti.
Certo il personaggio splendidamente interpretato da Adamo Dionisi, è fondamentale per l’economia dello show e si conferma il vero elemento destabilizzante della narrazione, che altrimenti sembra procedere senza grosse sorprese.
Con la morte di Samurai nella prima puntata, Aureliano e Spadino hanno conquistato rapidamente, forse troppo, le piazze gestite dal criminale che a lungo aveva regnato indisturbato su gran parte della Capitale.
Nonostante la storyline riguardante Cinaglia sia a malapena guardabile e risulti spesso uno delle parti meno convincenti della storia, è da segnalare l’ottima rappresentazione, come sempre, dell’intreccio politico-economico tra le diverse organizzazioni criminali a Roma, per una commistione tra politica, Santa Sede e criminalità raccontata in modo spesso sintetico ma estremamente efficace.
A proposito di Vaticano, è giusto spendere due parole sull’attore indecente scelto per interpretare il figlio segreto del Cardinale Nascari, un cane senza appello, con una recitazione di terza categoria che non rende merito alla serie italiana di casa Netflix.
A non tradire invece sono Alessandro Borghi e Giacomo Ferrara, due attori che ormai interpretano i rispettivi personaggi in modo egregio e senza nessuno sforzo apparente, quasi fosse una seconda pelle: tuttavia nonostante la loro bravura, spesso non sono supportati da una sceneggiatura adeguata, che ogni tanto inciampa nel classico fan service.
Ne è esempio lampante l‘evoluzione forzata del rapporto tra Nadia e Angelica, le due donne dei capi che non si sopportano ma con un pizzico di woman power e una manciata di “volemose bene perché cosi deve essere” magicamente vanno d’accordo e diventano amiche, il cliché dei cliché che poteva facilmente essere evitato.
A convincere invece è sicuramente la colonna sonora, che tra canzoni italiane trash anni ’80 e diversi pezzi rap del mondo romano è perfetta e accompagna al meglio tutte le scene, specialmente quelle dedicate alle due feste che contraddistinguono questo terzo appuntamento.
A proposito di feste, nonostante l’ottima resa scenica e un certo impatto visivo, le modalità con cui la festa degenera appaiono veramente banali e scontate, per una situazione intuibile già dai primi momenti e che si conclude come si poteva facilmente immaginare.
Arrivati ormai a meta stagione, appare chiaro come la gestione dei personaggi secondari, problema che attanaglia la serie sin dalla prima stagione, continui a essere uno dei punti deboli della serie, unendosi però a scelte autoriali dubbie e poco incisive anche per quanto riguarda i characters principali, i quali però almeno sono sorretti da ottime interpretazioni attoriali.
Nonostante un diffuso entusiasmo generale intorno a questo terzo ciclo seriale, la sensazione è che si sia abbassato il livello qualitativo generale dello show, andando a prediligere la voglia di accontentare i fan a scapito dell’efficacia della narrazione, la quale per ora di sicuro non entusiasma.
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Un episodio tutto sommato buono per la serie di casa Netflix, ma che conferma i difetti già rilevati nelle puntate precedenti. Le gestioni di alcuni momenti narrativi non convincono, con un fan service potente che incombe dietro l’angolo. La sensazione è che dopo un inizio di stagione deludente, lo show non sia mai decollato del tutto e visto le sole sei puntate previste la cosa inizia a farsi preoccupante. La valutazione è sufficiente ma nulla di più, sperando che nella seconda parte di questa terza e ultima stagione, Suburra stupisca e torni agli ottimi livelli mostrati nella seconda stagione.
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Venera due antiche divinità: Sergio Leone e Gian Maria Volontè.
Lostiano intransigente, zerocalcariano, il suo spirito guida è un mix tra Alessandro Barbero e Franco Battiato.