“Most days I watch these films and every time I learn something. I know Heydrich sent you to kill me and I don’t believe you are capable of doing it. Of killing anyone, ever again.
You were lost Rudolph, the moment you lost faith in the Reich. Not to me but to yourself.
Killing me might reconcile you with your past but it will also prompt the people who sent you to attack Japan immediately. You must take responsibility for the one or the other.”
Difficile parlare di “A Way Out” senza divagare.
Innanzitutto la puntata (potenzialmente series finale) riprende esattamente da dove finì “Kindness“, cioè da un cliffhanger a cui neanche Damon Lindelof avrebbe potuto pensare, figuriamoci spiegare. L’ultima ora di The Man In The High Castle parte subito in salita avendo l’impossibile compito di portare a termine tutte le storyline iniziate e protratte fino a qua, di conseguenza il tempo per elaborare una teoria accettabile del filmato sicuramente non è contemplata.
Si cincischia molto in questo season finale ma lo si fa consci del tempo a disposizione e soprattutto con la speranza che Amazon conceda un sospirato rinnovo, arrivato proprio mentre si sta scrivendo questa recensione. Spotnitz costruisce infatti “A Way Out” come la fine di una prefazione per una storia a più ampio respiro, il finale ne è la prova. Non si può guardare l’ultima scena e rimanere impassibili, senza fare alcune smorfie di dolore o gioia, semplicemente non si può. The Man In The High Castle è stato costruito per essere il rappresentante di una categoria ucronica e, come tale, mirava alla riproduzione fedele di un mondo privo di fantascienza ma ricco di immaginazione. Il viaggio del Ministro del Trasporto Tagomi è un salto dello squalo pazzesco, uno di quegli eventi da cui non si può tornare indietro e che stravolge completamente non solo la serie ma anche il genere stesso. The Man In The High Castle era ucronico fintanto che la realtà non fosse invasa dalla fantascienza (e non il contrario, è importante sottolinearlo), nel momento esatto in cui Tagomi viaggia tra il suo mondo e il 1960, per come lo conosciamo noi, non si può più parlare di quel genere. Non è più ucronia, è Fringe fantascienza. Ed in parte Philip K. Dick lo aveva anticipato.
Lo spettatore medio deve accettare di buon grado questa situazione per poter apprezzare l’intera serie, d’altra parte da qualche parte si doveva andare a parare e questa è una buona scappatoia anche per giustificare la provenienza delle pellicole del film The Grasshopper Lies Heavy. In un mondo tecnologicamente più avanzato di quello realmente esistito nel 1960 (“New York to San Francisco in under two hours.” come detto nel “Pilot“), la giustificazione della realizzazione di pellicole così dettagliate circa la caduta del Nazismo rappresenta un primo enorme dilemma da risolvere. Se la tecnologia è così avanzata per certi campi, per altri non lo è affatto, il cinema è uno di questi; se poi si aggiunge l’interpretazione da parte degli stessi protagonisti a loro insaputa (Frank e Joe), il tutto assume dei toni ancora più inspiegabili. La possibilità di viaggiare verso un’altra realtà, essa stessa ucronica nei confronti di quella di The Man In The High Castle, è un’ottima giustificazione per la provenienza della pellicola, tuttavia ancora poco giustificante per la presenza (puramente casuale) di Frank Frink e Joe Blake. Il cliffhanger di “Kindness” è stato costruito ad hoc, è chiaro, purtroppo alla luce di tutti i fatti fino ad ora mostrati però appare anche estremamente forzato. Ne prendiamo atto, lo apprezziamo ma ne riconosciamo anche l’abuso.
“A Way Out” chiude gran parte di tutte le trame imbastite sino a qua, sia quella ribelle di Rudolph Wegener con Hitler, sia quella patriottica dell’Obergruppenführer John Smith, sia quella amorosa/reazionaria di Frank-Juliana-Joe. La sensazione di completezza che si respira a fine puntata è sufficiente per poter contemplare l’idea che “A Way Out” sia un series finale, non sarebbe stata una bestemmia se Amazon avesse deciso di non andare avanti anche se l’ultima scena con il “viaggio” di Tagomi vale da solo come lasciapassare per una seconda stagione. E così è stato.
Philip K. Dick, prima di morire, aveva parlato più volte di un sequel letterario del suo “The Man In The High Castle”, parlato perchè, come riportato da lui stesso in diverse interviste, aveva più volte provato a scrivere il secondo libro senza però riuscirci in quanto “could not mentally bear to go back and read about Nazis again“. Due capitoli di questo libro mai finito furono pubblicati nella raccolta The Shifting Realities Of Philip K. Dick e già dal titolo si può intuire che la scelta di Spotnitz non sia stata fatta a caso ma, al contrario, stia seguendo le orme tracciate da Dick stesso. Il viaggio di Tagomi è una prima interpretazione per un sequel seriale audace che però si preparerebbe a stravolgere l’intero concept della serie e del libro, bisogna prenderne atto. Tuttavia, alla luce di ciò, si deve anche pensare alla possibilità che il Reich sia diventato quello che è esattamente per la possibilità che Hitler, raccogliendo tutte le pellicole di The Grasshopper Lies Heavy, abbia imparato dagli errori che nella nostra realtà gli furono fatali, evitandoli e realizzando il suo sogno di conquista. Speculazioni? Può essere, al momento però non abbiamo altre spiegazioni plausibili. “Most days I watch these films and every time I learn something.” ammette Hitler di fronte a Wegener, una frase che lascia trasparire ben più di quello che a prima acchito potrebbe sembrare.
Chissà se Philip K. Dick avrebbe apprezzato questa scelta, probabilmente si, noi valuteremo al termine della prossima stagione.
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Kindness 1×09 | ND milioni – ND rating |
A Way Out 1×10 | ND milioni – ND rating |
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Fondatore di Recenserie sin dalla sua fondazione, si dice che la sua età sia compresa tra i 29 ed i 39 anni. È una figura losca che va in giro con la maschera dei Bloody Beetroots, non crede nella democrazia, odia Instagram, non tollera le virgole fuori posto e adora il prosciutto crudo ed il grana. Spesso vomita quando è ubriaco.