Dopo i disastri combinati nel corso della sua prima visita negli Stati Uniti, il reporter kazako Borat Sagdiyev viene condannato a 14 anni di lavori forzati in un gulag per aver disonorato il suo paese agli occhi di tutto il mondo occidentale. Per salvare l’onore della sua nazione, il presidente affida a Borat un importante incarico: ingraziarsi il presidente degli Stati Uniti (Mc)Donald Trump regalando al suo vice Mike Pence Johnny la scimmia, quadrumane pornoattore e ministro della cultura in Kazakistan. Il protagonista ritorna negli States ma una volta arrivato il carico contenente il primate scopre che al suo interno vi è sua figlia Tutar, che ha seguito di nascosto il padre per poter coronare il suo sogno: trovare un ricco uomo che la renda felice come Trump ha fatto con la sua Melania, protagonista del suo cartone animato preferito. Borat decide quindi di regalare Tutar a Pence per compiere la sua missione. |
Borat è tornato. Quattordici anni dopo aver scioccato gli spettatori di tutto il mondo con Borat: Studio Culturale Sull’America A Beneficio Della Gloriosa Nazione Del Kazakistan, Sacha Baron Cohen torna con il suo personaggio più celebre identificando – come al solito in anticipo sui tempi – alcune delle peggiori tendenze affiorate in America in questo 2020, tra nazionalismo bianco, teorie del complotto, QAnon, ondate di odio, razzismo e fanatismo.
Nel 2006 Borat – basato sull’omonimo personaggio televisivo ideato da Cohen – faceva il suo esordio sul grande schermo in quello che si può definire un riuscitissimo esperimento sociale mascherato da semplice commedia demenziale. La prima visita del reporter kazako in America avveniva in un momento completamente differente: prima dei social, prima degli smartphone, prima dell’ondata di truppe in Iraq e quando George W. Bush era il peggior Presidente degli Stati Uniti immaginabile. A quel tempo il comico inglese non aveva un obiettivo unico per le sue gag, bensì si limitava a sguazzare tra stereotipi e contraddizioni che tratteggiavano la cultura americana di quel determinato periodo storico. Il risultato fu un mockumentary in grado di reggere il confronto con la maggior parte delle commedie dell’epoca.
Il film era riuscito a spremere fino all’ultima goccia il potenziale comico del personaggio, facendolo diventare lo strumento perfetto per sottolineare l’ipocrisia e il finto bigottismo del popolo americano. Le interviste strutturate come candid camera, nel corso delle quali gli interlocutori non riescono a capire se si tratti di realtà o finzione, rappresentarono l’arena perfetta entro cui esprimere l’intelligenza satirica del comico inglese, in grado di prendere in giro in maniera del tutto informale gli intervistati mettendone a nudo la grettezza e l’intolleranza. I tempi erano decisamente maturi per un personaggio come Borat, e Coen riuscì a saltare sul carro dei vincitori con una satira astuta mascherata da commedia di basso livello.
Non sorprende dunque che questo secondo atto in parte lasci lo spettatore un po’ con l’amaro in bocca, complice anche la mancanza di quell’effetto sorpresa che invece aveva contraddistinto il primo capitolo e che aveva permesso ad alcune sequenze di diventare iconiche fino al raggiungimento del punto di massima saturazione. La struttura del film appare molto più frammentata rispetto a quella del suo predecessore ma, anche grazie all’ottima prova dell’attrice bulgara Maria Bakalova (la figlia Tutar), il risultato finale è una commedia per alcuni versi ancora più irriverente – in particolar modo nell’ultima mezz’ora – ma decisamente meno “autentica” rispetto a prima.
Ambientato tra pandemia e imminenti elezioni presidenziali, questo secondo capitolo suona tanto come un campanello d’allarme per quella follia messa in scena quattordici anni fa grazie ad un paio di baffi finti e un goffo accento russo, un chiaro e forte “te l’avevo detto” che Cohen sbatte in faccia allo spettatore di scarsa memoria, ma anche uno stravagante appello al voto che porta con sé l’intento di far pendere da una parte la bilancia elettorale, magari persuadendo anche gli elettori fluttuanti. Borat, pioniere del trolling e della diffusione di fake news, incontra l’America di (Mc)Donald Trump, il cui successo elettorale altro non è che un trolling a democratici e progressisti, in un particolare momento storico contraddistinto da circostanze straordinarie in grado di rendere il film ancora più grottesco di quanto dovrebbe sembrare. Un’occasione per farsi due risate ma anche per riflettere sull’insensatezza di certe idee e sulla facilità con cui odio e pregiudizio riescono a diffondersi tra la gente. Un’altra pandemia globale già in atto da qualche anno e alla quale purtroppo sembra non esservi rimedio.
Jangshemash. My name a Borat. My life is nice. Not.
Uno degli elementi più affascinanti che questo sequel porta con sé ruota attorno alla fama guadagnata da Borat nel corso degli anni e alla conseguente impossibilità di girare per le strade d’America senza essere riconosciuto. La notorietà del personaggio di Sasha Baron Cohen, naturalmente, avrebbe privato il film di quell’effetto sorpresa che aveva fatto la fortuna del primo capitolo, rendendo quindi più difficoltosa la ricerca dell’onestà da parte degli intervistati. La soluzione, ovviamente, è ricaduta su tutta una nuova serie di travestimenti.
Paradossalmente, proprio sotto mentite spoglie il nostro Borat raggiungerà le vette più alte di scorrettezza, a partire dall’incursione al Conservative Political Action Conference travestito da Trump, passando per il ballo delle debuttanti – forse la scena visivamente più forte del film – e la canzone cantata al convegno dei Repubblicani, finendo poi con l’intervista all’ex sindaco di New York e avvocato del Presidente Trump Rudy Giuliani, terminata con quest’ultimo intento a mettersi la mano nei pantaloni di fronte alla Bakalova, presentatasi all’uomo come giornalista televisiva. Tutto sembra molto facile e magari anche un po’ finto ma in realtà, dietro molte di queste scene, Cohen ha dovuto affrontare diverse situazioni al limite: alla convention di Pence si è nascosto per cinque ore in un bagno, mentre ha veramente passato svariati giorni in lockdown a casa dei due complottisti senza mai uscire dal personaggio del giornalista kazako.
Attraverso tutte queste personalità, personaggio ed attore per un attimo diventano un’unica figura; Cohen è costretto ad indossare una maschera sopra la maschera e per gran parte del film in pratica si assiste ad una recita nella recita, a Cohen che si finge Borat che si finge qualcun altro, un gioco di scatole cinesi mediante il quale, ancora una volta, l’attore inglese raggiunge il suo scopo: fare da specchio a tutte quelle persone che esprimono liberamente di fronte a lui pensieri completamente folli dal punto di vista etico, con la sicurezza che soltanto l’ignoranza ti può dare.
Borat – Seguito Di Film Cinema è un film in cui si ride del lato oscuro degli Stati Uniti, dell’odio e della violenza che ancora permeano la società, cercando di mostrare il punto più basso di una fazione politica che fa leva sulla paura e sull’ignoranza delle persone per agguantare consensi. I fan più nostalgici forse rideranno meno, ma sicuramente troveranno in questo sequel la stessa genialità e lo stesso coraggio narrativo mostrato nel primo Borat. In due parole: great success!
TITOLO ORIGINALE: Borat Subsequent Moviefilm REGIA: Jason Woliner SCENEGGIATURA: Sacha Baron Cohen INTERPRETI: Sacha Baron Cohen, Maria Bakalova DISTRIBUZIONE: Amazon DURATA: 96′ ORIGINE: USA, 2020 DATA DI USCITA: 23/10/2020 |