Un male incancrenito e degenerato che blocca il respiro, che afferra il pubblico alla gola trascinandolo in un abisso senza fine. L’inferno. Il male esiste e Gomorra lo urla con ogni fibra del suo corpo seriale, forte di un’opera, quella omonima di Roberto Saviano, che sostiene e spinge ogni barbarie. Gomorra si presenta ancora come un grande dramma di stampo shakespeariano, in cui le spinte principali sono date dalla brama di potere e di vendetta, una tragedia greca in cui il fato è nemico dei suoi protagonisti, un poema epico il cui tema è l’avventura eroica del suo protagonista.
“Aropp tutt chell che c’ann fatt, stamm ancora ‘cca: sul ij e te”
Il dialogo dell'”Episodio 5″ rimarrà nella storia dello show, le parole intense di Ciro, intrise di redenzione (“so sciso all’inferno pe’ capì”), riscatto, amore per la famiglia (“teneva ragione Debora mia”) e quelle piene di rancore, rabbia, dolore di Genny, consapevole che quella in cui si trovano non è più la loro terra, si mescolano per dar forma ad un botta e risposta più simile ad un poema epico che ad un’opera contemporanea. “La città c’ha massacrato e c’ha sputato” dice il giovane Savastano, tumefatto dalla notte prima, umiliato, deluso per l’oltraggio subito, si sfoga con colui che un tempo era nemico pubblico e ora è di nuovo compagno di avventure. In questi minuti si celebrano due figure agli antipodi eppure entrambe forti narratologicamente grazie anche all’interpretazione di D’Amore e Esposito sempre più calati nel ruolo: da una parte c’è il minimalismo tragico di chi ha perso tutto e non può più riaverlo e dall’altra c’è la sovrabbondanza guerriera di chi può riavere tutto, basta ordire un piano.
Gomorra è sempre stata una questione tra loro, fin dal primo episodio: lo era quando Ciro era il mentore di Genny, quando L’Immortale aveva fatto uccidere Donna Imma, quando aveva freddato Don Pietro e lo è anche oggi, mentre i due, l’uno di fronte all’altro, in una stanza buia, si apprestano a combattere una battaglia fianco a fianco.
Sono pronti a combattere nonostante tutto; è pronto a combattere Ciro per riscattarsi da ciò che ha compiuto (grava ancora sull’uomo l’assassinio della moglie), per purificarsi da ciò che gli è caduto addosso (la morte della figlia); è pronto a prendere le armi Genny, a riconquistare ciò che ha perso, a vendicarsi di chi ha tentato di metterlo in ginocchio (materialmente, fisicamente, psicologicamente) e a riavere accanto Azzurra e Pietro, la sua famiglia. “Se lo fai per loro (la moglie e il figlio di Genny) io sto ‘cu te” dice L’Immortale ed è come il piè veloce Achille che, forte della sua immortalità, si fa strumento di una missione più alta. Se Ciro è deus ex machina che trova una nuova orda di barbari, capeggiati da Enzo Sangueblù, un altro ultimo, tristo e disperato che vede in lui un maestro, Genny, nell’ “Episodio 6” passa ad una camorra “nuova” che contamina politica, appalti, posti di lavoro, traendone profitto. Se nell'”Episodio 5″ Ciro lavora ai fianchi Enzo e i suoi, proponendogli lavori poco onesti, nell'”Episodio 6″ Savastano vuole fare guerra a Avitabile e ai clan a lui associati e così tenta di avere più alleati possibili (Scianèl).
“E’ come nascere, nessuno l’ha mai chiesto”
Punta proprio sulla rivalsa L’Immortale, sull’ascendente che ha su un giovane come Sangueblù, sulla sua brama di potere. Come Ciro anche Enzo ha i suoi fantasmi (la madre si è sacrificata per salvare la vita a lui e alla sorella) con cui fare i conti e come il suo mentore ha anche una voglia smisurata di diventare qualcuno (in queste parole sembra di rivedere il Ciro della prima stagione), di scalare il Sistema; il passato non può essere una spada di Damocle sulla sua testa. Per questo litiga con la sorella, per questo il “che voi fa nella vita, il contadino? Oppure vuoi fare qualcosa di importante” di Ciro non lo lascia indifferente e con fermezza dice “Io voglio crescere”. E’ facile per L’Immortale usare Sangueblù, ne conosce le spinte, le fragilità e i desideri e su questi fa leva quando il ragazzo, come un giovane acheo, viene posto di fronte ad un rito di iniziazione. Non c’è un percorso ad ostacoli, una notte lontani dal villaggio, deve semplicemente eliminare la pedina di una pedina, un uomo come tanti costretto a scendere a patti col diavolo per mantenere il figlio affetto da disabilità – l’occhio di Gomorra spia i suoi gesti sempre uguali a se stessi, mentre lavora, mentre parla con “il diavolo”, mentre fa il padre. Enzo si contorce nel dubbio, segue quell’uomo qualunque che si prodiga per il proprio figlio, tentenna fino all’ultimo ma poi agisce. Gomorra è sempre più buia.
A Genny però non basta, ha bisogno di altre persone per vincere, cerca Scianèl, attraverso Patrizia, le offre un’impresa di pompe funebri – interessante che il gruppo si incontri in mezzo ad un “anfiteatro” di bare, probabilmente segnale che la signora con la falce è a loro sempre molto vicina – e le espone il suo progetto che si esemplifica con la frase: “c’amm’a piglià i piazz’ e Napoli centro”.
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.