Yusuke, un attore e regista di teatro, non si è più ripreso dall’improvvisa scomparsa della moglie, una drammaturga. Due anni più tardi gli viene chiesto di mettere in scena Zio Vanja per un festival ad Hiroshima; lì, gli viene assegnata un’autista, giovane e riservata, con cui, durante i viaggi a bordo della sua Saab 900, finirà con lo stabilire un legame più significativo di quanto si aspettasse. |
Drive My Car è un film giapponese vincitore di diversi premi e candidato in diverse categorie agli Oscar 2022 (ne abbiamo discusso anche nel podcast): Miglior Film, Miglior Film Straniero, Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura Non Originale.
Si tratta di un road movie basato sul racconto breve omonimo di Haruki Murakami, raccolto nel libro Men Without Women. Il soggetto della narrazione è un regista-attore di teatro (ma anche della televisione) mai ripresosi del tutto dalla perdita della moglie, soprattutto perché non ha mai potuto affrontare l’argomento “tradire” con lei.
Rispetto all’opera di Murakami ci sono stati alcuni rimaneggiamenti come per esempio il colore della macchina stessa (una Saab 900 Turbo) che nel film appare rossa, mentre nel racconto era gialla. Altri cambiamenti sono strettamente collegati alla produzione in sé del film: il set del film era previsto a Busan (Corea del Sud), ma la recentemente pandemia ha costretto a trovare una soluzione più vicina e pratica (Hiroshima); Ryusuke Hamaguchi, il regista, sperava di poter includere la canzone dei Beatles da cui film e racconto prendono il titolo, tuttavia l’eccessiva difficoltà nell’ottenere il permesso di utilizzarla costrinsero a trovare alternative musicali differenti.
Quelli che vivranno dopo di noi, fra due o trecento anni, e ai quali stiamo preparando la strada, ci saranno grati? Si ricorderanno di noi con una buona parola? (Zio Vanja, Čechov)
Come detto, il film racconta del regista-attore, Yūsuke Kafuku, e del suo rapporto con la moglie Oto. I due vengono mostrati come una coppia unita, piena d’affetto. Un quadro idilliaco che viene spezzato ben presto nel film quando, tornando a casa inaspettatamente, Yūsuke sorprende la moglie a letto con un altro uomo decisamente più giovane (ma inquadrato di spalle e quindi non identificabile né da lui, né dallo spettatore). È una cosa che sconvolge il regista, mandandolo in paranoia e portandolo a domandarsi se la donna lo ami ancora. Il film si addentra nell’intimità più segreta tra i due, mostrando la nascita delle idee di sceneggiature di Oto (narrate durante il sesso), ma in particolar modo cercando di addentrarsi nel lato sentimentale del rapporto. La scomparsa della moglie intacca questa analisi del privato, gettando Yūsuke nel buio tetro del silenzio. Sarà solo con l’arrivo di Misaki, l’autista impostogli dalla società che lo assume per un nuovo spettacolo teatrale, che l’uomo riscoprirà il piacere della condivisione del proprio pensiero. Una condivisione non unilaterale visto che anche la giovane ragazza racconterà parte del suo tragico passato rendendo il claustrofobico interno dell’automobile una sorta di confessionale.
Di Drive My Car, tuttavia, a far notizia sembra più la durata (tre ore) che la storia in sé, un vero peccato perché dell’opera di Hamaguchi bisognerebbe parlare prevalentemente per il concetto di “tradimento” rivisitato e sviscerato in ogni suo singolo aspetto oltre che per la costruzione narrativa e la modalità con cui le informazioni vengono date allo spettatore.
Drive My Car, infatti, rappresenta una delicatissima storia d’amore raccontata attraverso riferimenti metatestuali nei dialoghi e nell’opera teatrale portata in scena durante il film (Zio Vanja). Attorno ai sentimenti e alle emozioni viene costruito una sorta di muro invalicabile, quindi occorreva un modo per esprimere la sensazione di rammarico e tristezza provata sia da Yūsuke, sia da Misaki (per i propri personali motivi). Ecco quindi che le sceneggiature di Oto, raccontate durante il film anche da terze persone, oppure determinati atti di Zio Vanja rappresentano l’escamotage perfetto per affrontare i sentimenti senza doverli per forza di cose portarli in scena e chiamarli per nome.
La compostezza di Yūsuke rimane tale visto che la tristezza che prova non viene mai esplicitata: Hamaguchi da questo punto di vista riesce a ritrarre un personaggio integro e inamovibile nella sua maschera prova di sentimenti. Una maschera che viene portata anche da Misaki, più fredda e distaccata dell’uomo, scelta giustificata dal fatto che si sta parlando dell’autista impegnato nel proprio lavoro.
Una donna può esser amica di un uomo solamente in questa progressione: dapprima conoscente, poi amante e infine amica. (Zio Vanja, Čechov)
Il film è composto da un prologo di circa quaranta minuti in cui viene descritta la situazione iniziale di Yūsuke, prima della morte della moglie. Dopo di che c’è un time skip di circa due anni che rappresenta, di fatto, l’inizio del film: comprensibile anche dal fatto che presentazione degli attori e titoli di testa compaiono in questo specifico momento.
Il film si può essenzialmente suddividere in tre tronconi: il prologo; parte centrale; conclusione.
Detto del prologo, la parte centrale rappresenta circa l’ora e mezza in cui Hamaguchi va a presentare allo spettatore sia i nuovi personaggi, sia i cambiamenti occorsi negli ultimi due anni. La si può definire come la fase di studio del film dal momento che Misaki e Yūsuke iniziano a conoscersi ed il lavoro per la nuova opera teatrale inizia ad essere imbastito con ordine e disciplina.
La conclusione è rappresentata dall’ultima ora circa di film quando, durante un dialogo tra Yūsuke e Koji, il velo di finzione e di silenzio attorno alla tematica del tradimento viene tolto portando alla luce l’ennesimo confronto metatestuale dell’opera di Hamaguchi. Il muro inizia a sgretolarsi, quindi, lasciando spazio ai veri sentimenti e non più alla semplice rappresentazione degli stessi per mezzo di terzi fattori.
La chiave di volta per questo sgretolamento è l’arrivo di Misaki all’interno della vita di Yūsuke: anche la giovane ha subito diverse perdite quando era bambina, rendendola agli occhi dello spettatore la fantomatica metà platonica del regista tanto i bordi riescano a collimare perfettamente. La sintonia e la condivisione delle loro vite all’interno dell’automobile cancella dalla mente dello spettatore la claustrofobica fotografia del film.
Per raggiungere un così alto minutaggio, Hamaguchi si è basato su sequenze molto lunghe, intense, dove i personaggi vengono ripresi con vigore e per tanto tempo. Tutti gli spostamenti in automobile ricevono un attento focus e ampio minutaggio, così come altre sequenze narrative come per esempio il casting degli attori per lo spettacolo oppure la cena a casa di Kon Yoon-su e Lee Yoon-a.
In generale, nel film viene diluita ogni singola scena che avrebbe forse potuto coprire un buon 20-30% in meno. Ma è questo che rende accattivante la pellicola: Drive My Car porta in scena una diluizione estrema che costringe lo spettatore ad immergersi in un racconto semplice dal punto di vista narrativo, ma estenuante per la gestione delle tempistiche.
L’automobile, prima di diventare una sorta di confessionale per le persone sedute al posto del passeggero, rappresenta per Yūsuke il suo rifugio, il suo nascondiglio, un luogo dove lavora e pensa, una rappresentazione di se stesso.
Mi sono lasciato sfuggire qualcosa di genuino. Ero così profondamente ferito. A tal punto da essere distratto. Ma…a causa di questo ho fatto finta di non notarlo. Non ho ascoltato me stesso. E quindi ho perso Oto. Per sempre. Ora capisco. Voglio vedere Oto. Se la vedo, voglio urlarle addosso. Rimproverarla, per avermi mentito tutto il tempo. Voglio scusarmi. Per non aver ascoltato. Per non essere stato forte. La rivoglio indietro. Voglio che viva. Voglio parlarle ancora un ultima volta. Voglio vederla. Ma è troppo tardi. Non si può tornare indietro. Non c’è niente che possa fare. Quelli che sopravvivono continuano a pensare ai morti. In un modo o nell’altro, questo continuerà. Io e te continueremo a vivere così. Dobbiamo continuare a vivere. Andrà tutto bene. Ne sono sicuro. Noi staremo bene.
Drive My Car è un road movie dove il viaggio è sia materiale, considerati i lunghi tratti in automobile, sia immateriale se si considera invece il percorso di crescita personale e accettazione di se stessi da parte di Yūsuke e Misaki. Le emozioni vengono sprigionate solo nel finale, ma in tutto il film penetrano lentamente all’interno della narrazione sfruttando significativi silenzi, dialoghi metatestuali e andando a riempire gli spazi. Ad un certo punto, però, proprio queste emozioni travolgeranno i due protagonisti smuovendoli dalla caratterizzazione algida ed impassibile con la quale erano apparsi in scena fino a quel momento.
Un film intenso e che nonostante l’alto minutaggio, che ovviamente a suo modo pesa, riesce ad intrattenere. La vera domanda che rimarrà irrisolta è se Hamaguchi sarebbe riuscito a rendere magnetica la pellicola anche diminuendo quella diluizione di scena di cui si è parlato all’interno di questa recensione.
TITOLO ORIGINALE: ドライブ・マイ・カー, HEPBURN: Doraibu mai kā REGIA: Ryusuke Hamaguchi SCENEGGIATURA: Ryusuke Hamaguchi, Takamasa Oe; soggetto Haruki Murakami INTERPRETI: Hidetoshi Nishijima, Misaki Watari, Masaki Okada, Reika Kirishima DISTRIBUZIONE: Bitters End DURATA: 179′ ORIGINE: Giappone, 2021 DATA DI USCITA: 11/07/2021, Cannes; 20/08/2021 Giappone |