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Anya Taylor-Joy è sicuramente la forza trainante della nuova serie originale Netflix, nella quale riveste i panni di Beth Harmon, un prodigio degli scacchi, tanto brava a barcamenarsi tra alfieri e pedoni ma non sulla scacchiera della vita.
I brevi flashback proposti finora fanno intendere allo spettatore un grave trauma, dovuto al suicidio della madre e un’infanzia difficile – alla quale è dedicata l’intera prima puntata – trascorsa alla Methuen Home for Girls. Qui Beth, grazie alla pazienza del signor Shaibel, impara a giocare a scacchi e si innamora perdutamente delle sessantaquattro caselle, dei sedici pezzi e delle varie mosse e contromosse messe in atto per dare scacco matto, ovvero per attaccare il re rivale, impedendogli di fuggire. All’orfanotrofio, la piccola enfant prodige sviluppa, purtroppo, una dipendenza da tranquillanti (medicinali che venivano comunemente somministrati ai bambini), dipendenza che le si incollerà addosso come un’ombra nera, sempre pronta ad inghiottirla nel suo baratro.
Beth, dall’animo fragile e dai grandi occhi scuri, trova rifugio e conforto negli scacchi, unica parte della sua vita sulla quale può avere il controllo, senza doversi affidare ad un destino beffardo che l’ha privata di tutto. La Taylor-Joy è perfetta nei panni di Beth, dall’esile figura, quasi sciupata, che si aggira titubante in mezzo alla società, come se avesse paura di non appartenervi, dalla mimica facciale che riflette un’anima triste e ferita, ma gonfia di rabbia e passione non appena mette mano su un pedone. Beth non sorride, ma parlano i suoi occhi. Occhi che si illuminano di fronte ad una scacchiera o ad un libro scritto da grandi campioni. Occhi che studiano l’avversario e vanno in confusione quando la gara si mette male e lo sfidante mette in discussione l’esito della partita.
I brevi flashback proposti finora fanno intendere allo spettatore un grave trauma, dovuto al suicidio della madre e un’infanzia difficile – alla quale è dedicata l’intera prima puntata – trascorsa alla Methuen Home for Girls. Qui Beth, grazie alla pazienza del signor Shaibel, impara a giocare a scacchi e si innamora perdutamente delle sessantaquattro caselle, dei sedici pezzi e delle varie mosse e contromosse messe in atto per dare scacco matto, ovvero per attaccare il re rivale, impedendogli di fuggire. All’orfanotrofio, la piccola enfant prodige sviluppa, purtroppo, una dipendenza da tranquillanti (medicinali che venivano comunemente somministrati ai bambini), dipendenza che le si incollerà addosso come un’ombra nera, sempre pronta ad inghiottirla nel suo baratro.
Beth, dall’animo fragile e dai grandi occhi scuri, trova rifugio e conforto negli scacchi, unica parte della sua vita sulla quale può avere il controllo, senza doversi affidare ad un destino beffardo che l’ha privata di tutto. La Taylor-Joy è perfetta nei panni di Beth, dall’esile figura, quasi sciupata, che si aggira titubante in mezzo alla società, come se avesse paura di non appartenervi, dalla mimica facciale che riflette un’anima triste e ferita, ma gonfia di rabbia e passione non appena mette mano su un pedone. Beth non sorride, ma parlano i suoi occhi. Occhi che si illuminano di fronte ad una scacchiera o ad un libro scritto da grandi campioni. Occhi che studiano l’avversario e vanno in confusione quando la gara si mette male e lo sfidante mette in discussione l’esito della partita.
The Queen’s Gambit non è solo una serie tv di risalto ed emancipazione femminile in un ambiente – quello degli scacchi – puramente maschile, è soprattutto una serie di sofferenza, riscatto e contrasto interiore per trovare il proprio posto nel mondo. Un percorso vile ed avvilente, che passa per il mostro insormontabile della dipendenza da farmaci e che preclude a Beth qualsiasi tentativo di crescita e maturazione. Nonostante gli anni passino e la ragazza diventi adolescente, la Harmon rimane la bambina solitaria e taciturna di un tempo, che si fa scivolare via la vita tra le dita senza riuscire ad afferrarne le gioie. Il suo unico scopo, ciò che ancora la tiene a galla, è la sua genialità da stratega che le permette di mettere sotto scacco avversari famosi e dimenticare, per un attimo, i suoi demoni.
Beth non sarà sicuramente un character che suscita subito empatia, dato il suo carattere chiuso, a tratti duro e la sua smania di essere perfetta, migliore di tutti, ma è proprio la sua instabilità ed incapacità sociale a conquistare il cuore degli spettatori. Esempio lampante è il suo modo di affrontare le relazioni e reagire ad eventi totalmente normali: il giovane scacchista Townes, incontrato durante una competizione, la destabilizza, così come pure la sua prima mestruazione, capitata proprio durante lo scontro con il campione del Kentucky. Beth risponde a queste situazione con goffaggine e turbamento, proprio perché non pronta e non abituata ad affrontare le sfaccettature della vita in generale. L’unico aiuto che potrebbe ricevere è quello della madre adottiva, Alma Wheatley (una bravissima Marielle Heller), che rappresenta un’ancora di salvezza per Beth, dopo gli scacchi. La signora Wheatley è anch’essa un’anima frastagliata, abbandonata dal marito e dedita a troppe alzate di gomito, ma desiderosa di dare e ricevere amore, seppur a suo modo.
Beth non sarà sicuramente un character che suscita subito empatia, dato il suo carattere chiuso, a tratti duro e la sua smania di essere perfetta, migliore di tutti, ma è proprio la sua instabilità ed incapacità sociale a conquistare il cuore degli spettatori. Esempio lampante è il suo modo di affrontare le relazioni e reagire ad eventi totalmente normali: il giovane scacchista Townes, incontrato durante una competizione, la destabilizza, così come pure la sua prima mestruazione, capitata proprio durante lo scontro con il campione del Kentucky. Beth risponde a queste situazione con goffaggine e turbamento, proprio perché non pronta e non abituata ad affrontare le sfaccettature della vita in generale. L’unico aiuto che potrebbe ricevere è quello della madre adottiva, Alma Wheatley (una bravissima Marielle Heller), che rappresenta un’ancora di salvezza per Beth, dopo gli scacchi. La signora Wheatley è anch’essa un’anima frastagliata, abbandonata dal marito e dedita a troppe alzate di gomito, ma desiderosa di dare e ricevere amore, seppur a suo modo.
Nonostante The Queen’s Gambit non possa essere considerato innovativo dal punto di vista narrativo, visto e considerato che ricalca abbastanza fedelmente il classico copione da film sportivo, con l’atleta che parte dai bassifondi e lotta contro gli altri e se stesso, la serie di Scott Frank ed Allan Scott convince grazie ad un cast eccezionale, una regia delicata e possente allo stesso tempo e una storia che riflette la fragilità di tutti noi.
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Il secondo episodio si fissa sul livello del precedente, rendendo The Queen’s Gambit una commovente storia di dipendenza e redenzione, che va assolutamente vista.
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Se volete entrare nelle sue grazie, non dovete offendere: Buffy The Vampire Slayer, Harry Potter, la Juventus. In alternativa, offritele un Long Island. La prima Milf di Recenserie, ma guai a chiamarla mammina pancina.