Se nel pilot, L’Appuntamento, è stata naturalmente l’introduzione di Daniel e del suo background a dominare il focus narrativo, il cliffhanger finale (decisamente riuscito) porta a rovesciare anche il punto di vista della storia, in questa puntata, incentrato sulla protagonista dello “scambio di persona” .
È infatti il personaggio di Matilda ad occupare principalmente la scena, fin dal primo momento della puntata, diretta conseguenza del suo ritorno a casa, contenente già un primo e importante colpo di scena: ad aspettarla c’è Enea, suo fidanzato, convivente nonché futuro marito.
Una rivelazione capace di far rileggere tutte le dinamiche del primo incontro tra Daniel e la ragazza, in particolare il suo comportamento stranamente elusivo in più di un’occasione, a sottolineare un mirabile gusto per i dettagli nella scrittura. Un’attenzione che continua per tutto l’episodio, con quel “tarlo” tanto poco metaforico da diventare fisicamente letterale, che accompagna Matilda, altrettanto attivamente e passivamente, in tutto il suo approfondimento psicologico. Un episodio, infine, che ha inoltre l’assoluto merito di sconfessare anche tutti i “tarli” iniziali che affliggevano una certa fetta di spettatori nell’approcciarsi alla serie dei The Jackal, eliminandoli uno per uno.
NESSUN RIMPIANTO
Il primo di questi, tra i più insidiosi ma anche non previsti in realtà, si poteva annidare proprio tra i nuovi personaggi introdotti per arricchire il background di Matilda, tra cui figura la versione adulta di Inés (Claudia Tranchese, già apparsa in Gomorra, tra gli altri) che tra piacevole modernità e divertente ironia partenopea, spicca per maturità e presenza scenica (specie nella scena dell’addio al nubilato).
Ma naturalmente a rappresentare i maggiori pericoli poteva essere l’aggiunta del componente inaspettato di quello che, di fatto, è già diventato un triangolo amoroso, Enea (Sebastiano Kiniger). Un inserimento, per fortuna, tutt’altro che banale, perché Enea non si rivela essere il solito fidanzato-villain da commedia romantica, che trascura o perfino svilisce la relazione con l’indecisa protagonista, un po’ alla “Jed Mosely” in How I Met Your Mother per intenderci. Appare invece comprensivo, onesto, sicuramente innamorato. E infatti l’espressione lampante quanto intensa, che Cristina Cappelli sfoggia in finale d’episodio, dopo aver scoperto del tenero “cambio di bomboniera” ad opera del fidanzato, dice tutto sul conflitto interiore della ragazza, reso interessante proprio dal suo non essere di così facile risoluzione.
La bravura del team di autori capeggiato da Francesco Ebbasta sta proprio nel rendere quel “tarlo” che perseguita Matilda, com’è in fondo accaduto alla sua amica prossima alle nozze, da personale ad universale, quindi oltremodo reale, ed infine generazionale, che d’altronde è proprio il tema cardine della serie. Nell’eterna indecisione, confusione e pressione sociale su ciò che la ragazza desidera davvero, c’è tutto lo scontro di una generazione tra ambizioni professionali (come evidenziato perfettamente dal dialogo sui “sogni parigini” che Matilda ha col suo capo) e ideali amorosi e la dura realtà, fatta di ben più disillusi compromessi, di pesanti aspettative. E si ritrova così a sentirsi in colpa, mortificata, perché pur avendo un lavoro e una relazione invidiabile, sarebbe quel “qualcos’altro” o meglio “qualcun altro”, più rischioso ma chissà quanto più soddisfacente, a renderla felice.
GLI ANNI D’ORO DEL GRANDE REAL
E a proposito di discorso generazionale, altro aspetto più che riuscito è proprio quello interno alla serie, ossia nel salto temporale tra passato e presente che aiuta a comprendere la caratterizzazione dei protagonisti. Lo testimonia il bellissimo e significativo confronto tra la piccola Matilda sul divano e quella adulta, sul letto, sul finale d’episodio, perseguitata oggi come allora da quel “tarlo” che ha il nome e il volto di Daniel, che si scopre non averla mai abbandonata da praticamente una vita. Una scelta narrativa che nel puntare sull’ambientazione anni ’90, poteva rappresentare un altro pericolo (ben più atteso), altrettanto brillantemente scampato.
Dal successo di Stranger Things in poi, infatti, le “operazioni nostalgia” (a tema anni ’80 in primis) hanno saturato una buona parte del palinsesto televisivo (senza considerare le sale cinematografiche), dando spesso vita però a prodotti perlopiù vuoti di contenuti, se non privi di una forma all’altezza. E invece proprio nell’episodio che usa come espediente narrativo il modem 56k che dà il nome alla serie, si può constatare ancora una volta, dopo le “cassette porno” del pilota, che tutti quegli elementi appartenenti all’infanzia della generazione di riferimento, sono soprattutto votati ad una precisa funzionalità narrativa. Ovvero ad avvicinare e infine legare, indissolubilmente, i due ragazzini protagonisti, a tenerli ancorati a quelle esperienze indimenticabili che segneranno la loro crescita, come la passione. Anzi, a farli rincontrare, per condividere insieme quel desiderio di fuga da un presente che forse non li rappresenta, in cui come per Terminator e John Connor c’è una continua ansia di “crescere”, appunto, facendo così della nostalgia una solida base di partenza.
LA DURA LEGGE DEL GOL
Bisognerà constatare, con i successivi episodi, se quanto di buono visto finora troverà conferma o meno, ma per adesso va riconosciuto a Francesco Ebbasta e i The Jackal, attesi al varco dopo il deludente Addio Fottuti Musi Verdi (almeno per gran parte di pubblico e critica), di essere partiti con i migliori auspici. Nel film, infatti, il tentativo di non incorrere nello stesso errore che aveva accomunato l’esperienza dei tanti youtubers (anche i più brillanti) approdati al grande schermo prima di loro, ossia l’incapacità di adattarsi totalmente al ben differente media cinematografico, era riuscito solo a metà.
Con Generazione 56k, invece, sembrano aver assorbito in pieno il format televisivo, nonché quello ancor più peculiare di Netflix e di quei 30 minuti di puntata che invogliano lo spettatore a saltare immediatamente alla seguente. Ma soprattutto, come detto, sembra che stavolta siano tornati a centrare in pieno ciò che gli si può riconoscere fin dal corto “30 anni – il sabato sera“, proprio lì dove erano caduti clamorosamente nell’esordio sul grande schermo, pur avendoci già iniziato a provare: parlare ad una generazione, quella dei millennials, in maniera vera, onesta e aderente alla realtà; in un modo che ha trovato così poco riscontro nel cinema italiano dell’ultimo ventennio, da portare quella stessa generazione a distaccarsene profondamente. E allora sì, come lo “squadrone” di un certo Max, non importa se vinceranno o meno, ma sembra proprio che stavolta abbiano segnato una rete “spettacolare”.
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Col secondo episodio Generazione 56k svela le carte in tavola, finendo alla grande la sua prima parte introduttiva, confermando quanto di buono visto nell’episodio pilota. Nulla appare troppo scontato per quella che sembra essere una leggera, divertente ma anche tanto incisiva e “onesta” cronaca di una generazione, raccontata spesso poco (e male) nel recente passato del nostro paese.
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.