Recensione Mank Netflix Fincher
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Mank

Recensione di Mank, l'ultima perla di David Fincher che racconta la stesura della sceneggiatura del film capolavoro: Quarto Potere. Disponibile su Netflix.

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Costretto a letto per la rottura di una gamba in seguito ad un incidente automobilistico, il graffiante critico sociale e sceneggiatore alcolista Herman J. Mankiewicz si affanna a finire il copione di Quarto Potere per Orson Welles. Per aiutarlo e incentivarlo nella scrittura, il “ragazzo prodigio” lo ha fatto trasferire in un luogo isolato, senza alcol, assistito dalla segretaria Rita Alexander che batterà a macchina lo script per lui. Mentre i giorni passano ed il tempo comincia ad esaurirsi, “Mank” ripercorre i suoi ricordi nella Hollywood degli anni ’30. 

Recensione di Mank, l’ultima perla di David Fincher che racconta la stesura della sceneggiatura del film capolavoro: Quarto Potere. Disponibile su Netflix.

Alla sua undicesima opera, è arrivato anche per David Fincher il momento di realizzare il proprio film “sul cinema”, unendosi così a quel ristretto club di autori immortali come Wilder, Truffaut, Altman, ai nostrani Fellini e Tornatore, fino ai contemporanei Allen, Tarantino e Lynch, che (insieme ad altri) hanno compiuto il grande e ambizioso “passo”, spesso sancendo una determinata fase della carriera, coincidente (il più delle volte) con quella della massima maturità. Un momento per Fincher atteso più di vent’anni, non a caso, dato che il regista di Fight Club lo voleva realizzare già dopo The Game (con Kevin Spacey e Jodie Foster come protagonisti), trovando però la resistenza delle case di produzione per la sua volontà di girarlo in bianco e nero. Ci è voluto quindi il raggiungimento di un elevato status all’interno dell’industria, nonché l’accordo esclusivo con Netflix, per veder finalmente compiuto il suo personale Effetto Notte, in cui chiamando in causa addirittura uno dei capolavori più importanti della storia del cinema, racconta la Hollywood degli anni ’30, in un arco temporale di una decina d’anni fatti di profondi e decisivi cambiamenti dello studio system, culminati appunto nell’uscita di Quarto Potere datata 1941 (e premiato agli Oscar, l’anno dopo).
E come ogni immortale autore, Fincher il “grande passo” lo fa secondo la sua visione, offrendone uno specchio tutt’altro che celebrativo o lusinghiero, ma piuttosto amaro, crudo e spietato, alla maniera de I Protagonisti. Al tempo stesso, all’interno della filmografia del regista, Mank è anche piuttosto diverso, perfino inaspettato sotto certi punti di vista, ma comunque in linea con la sua impressionante capacità di adattarsi alla storia che sta narrando, sempre perfettamente funzionale, sempre straordinariamente preciso e rigoroso, come ha dimostrato di saper fare in passato, meglio di ogni altro. Mai legato ad un solo modo di fare cinema, ma piuttosto in continuo e inesauribile mutamento.
Come negli altri film di questo tipo, la componente meta-cinematografica domina la messa in scena, con la stesura dello script di Citizen Kane e, soprattutto, i retroscena della vita di Herman J. Mankiewicz, che rimandano a ciò che verrà poi trasposto sullo schermo da Orson Welles, pur in realtà (e sta tutta qui la vera “originalità” dell’opera di Fincher, nel bene e nel male) non approfondendo mai davvero il suo processo creativo, almeno non nel dettaglio. Si avanza invece ora per proclami, ora per suggestioni, partendo però da quello spunto con cui Mank comincia il suo lavoro, e che finirà per caratterizzare l’intera pellicola: “come racchiudere la vita di un uomo (e in estensione, tutta la sua epoca) in due ore?”.

You cannot capture a man’s entire life in two hours. All you can hope is to leave the impression of one. 

È così che le due storie, quella personale dello scrittore e quella della creazione del personaggio di Charles Foster Kane, procedono sullo schermo di pari passo, come fossero un tutt’uno, esclusivamente dal punto di vista dello scrittore, però, seguendo quindi il più classico dei principi della sceneggiatura statunitense, lo “show, don’t tell” (almeno in questo caso).
Fincher mostra cosa ha ispirato Mank, quali incontri e quali eventi lo hanno segnato nel corso della sua parabola hollywoodiana, fin dal suo arrivo a San Simeon (da cui scaturirà l’iconica Xanadu) e il decisivo incontro con il magnate dell’informazione William Randolph Hearst (e della sua amata Marion Davies), mentre “off-screen”, nel rifugio in cui il team di Welles lo ha isolato, Quarto Potere prende vita. Nel frattempo, la stessa struttura narrativa dell’opera di Fincher riprende quella di Quarto Potere, con l’escamotage della visita, nel presente della storia, di personaggi-chiave per il background del protagonista, che aprono ai flashback (con tanto di cartello esplicativo) sul suo passato. Ed oggi come allora se il significato letterale della “parola” Rosebud potrà apparire più che banale (anzi, stavolta decisamente di più, anche se sicuramente più divertente), è quello che si nasconde dietro ad essere molto più complesso.
Mank non si limitare a celebrare lo script originale ed il suo autore, ma nel suo lavoro di ricostruzione dell’epoca, arriva ad omaggiare in maniera continua ed appassionata l’intera categoria, il suo ruolo fondamentale per la settima arte. Ed è ammirabile e tanto suggestivo soprattutto perché proviene dalla volontà di David Fincher che, nella sua carriera, non ha mai firmato le sceneggiature dei suoi film; un limite che tra l’altro gli è spesso stato (magari anche eccessivamente) imputato, impedendogli appunto di raggiungere quella massima considerazione “intellettuale” riservata a pochi, o almeno per una certa frangia della critica. E ad aggiungere ancor più peso a quest’ultima operazione, stavolta il suo cognome compare ma con il nome del padre, Jack Fincher, scrittore, giornalista e autore dello script di Mank negli anni ’90, script che il figlio David voleva produrre prima della sua scomparsa, nel 2003. Mank presenta così un elogio marcato alla scrittura in sé, all’arte dell’uso della parola, con riferimenti costanti alla letteratura e al teatro e dove, non a caso, Shakespeare (tanto caro allo stesso Orson Welles) la fa da padrone.
Alternandosi con estrema perizia tra commedia e tragedia, si sciolgono trame e complotti, specie in merito alle elezioni del 1934 per eleggere il governatore della California, in cui si susseguono Otello, Re Lear, Macbeth, fino al più alto momento riservato tutto al Don Chisciotte di Cervantes; in cui i tradizionali tre atti scandiscono i passaggi cruciali della narrazione che culminano nella resa dei conti finale, nel duello sanguinoso tra i due contendenti del cuore della stessa donna, dal quale esito dipende l’origine dei tormenti (e della conseguente “rinascita”) dell’eroe poiché, come afferma lo stesso Hearst/Charles Dance nel primo incontro con Mankiewicz: “la vita è un palcoscenico“. D’altro canto, Quarto Potere resta comunque qualcosa di mai scritto, e poi visto, per l’epoca (come afferma subito lo stesso Houseman leggendo le prime bozze di Mank), non solo per l’insolita frammentazione della storia, ma soprattutto per l‘innovativa quanto rivoluzionaria regia di Orson Welles.

Mank, I’ve just finished your first draft and I must say I’m pleased and impressed.

Si entra perciò nella materia privilegiata da Fincher-figlio; una materia che se oggi esiste, col suo valore predominante all’interno dell’industria, lo si deve proprio a questo film. Perché Citizen Kane è l’opera che ruppe con gli schemi, che liberò il regista dalla condizione di “invisibilità” imposta dal cosiddetto découpage classico, portandolo a palesarsi di fronte allo spettatore, con i suoi movimenti di macchina, le profondità di campo, punti di vista della macchina da presa ancora poco esplorati, aprendo infine la strada al cinema moderno nei decenni successivi (ispirando le future avanguardie).
Da una parte nel lavoro di Fincher c’è una restituzione scrupolosa delle pratiche del tempo, dalle transizioni del montaggio alla fotografia, fino alla musica degli ormai “fidati” Trent Reznor e Atticus Ross (che per comporre la meravigliosa colonna sonora hanno usato solo strumenti autentici dell’epoca); dall’altro c’è tutta la glorificazione di quello spirito audace, di quella visione ambiziosa, in un crescendo di intensità e maestria che si consuma nella scena del monologo/sfogo di Gary Oldman a San Simeon, dove ogni gesto è carico di significato, dove ogni inquadratura o movimento di macchina è infusa dell’energia che si respira per ciò che sta avvenendo. Perché se c’è un regista capace di avvalersi di storie di qualcun altro, esaltandole all’inverosimile oppure, come in questo caso o come quello di Uomini Che Odiano Le Donne, compensandone i difetti e facendo nel frattempo brillare tutta la propria presenza dietro la mdp (basterebbe citare una sequenza su tutte), quello è proprio David Fincher. Dopotutto, se lo stesso Aaron Sorkin ha recentemente affermato che scriverebbe un sequel di The Social Network, solo se a dirigerlo ci fosse ancora una volta lui, un motivo c’è.
In perfetta coerenza con la costruzione meta dell’opera, un’altra profezia di Houseman, ossia che lo script di Mank è troppo complicato, finisce per racchiudere le problematiche della pellicola. Nel suo porre l’accento sul valore della “parola” in riferimento alla sua assoluta incidenza nella settima arte, il film Fincher va ad inquadrare una fase fatidica del cinema hollywoodiano, partendo dal passaggio dal muto al sonoro, in cui si registra la crescente rilevanza del ruolo degli sceneggiatori nell’industria, fino a sfociare nella nascita della Writers Guild of America. In questo articolato percorso, Mank rischia di incespicare in un’eccessiva verbosità, di perdersi in una sequela di nomi, luoghi ed eventi che possono far risultare ostica la visione, decisamente lontana dalla scorrevolezza data da un Sorkin appunto (o anche “solo” da un Adam McKay).
Pur se in teoria sarà tutto funzionale all’evoluzione del pensiero del protagonista (e alla finale genesi di Kane), il pericolo è quello di allontanare di fatto l’attenzione dello spettatore dalla vicenda personale di Mank. Un aspetto che apre inoltre ad un dilemma già venuto fuori in tempi recenti con l’uscita di C’era Una Volta A Hollywood, ovvero su quanto la conoscenza dei “fatti reali” affrontati nel film possa stravolgere o meno la fruizione spettatoriale. A differenza dell’illustre precedente, il film di Fincher procede in modo decisamente molto meno fluido da questo punto di vista, pur condividendo con l’opera di Tarantino una certa libertà sulla ricostruzione storica (si consiglia, a tal proposito, questo dettagliato articolo de Il Post.it), accendendo oltretutto simili polemiche. Se in quel caso, si è accusato il regista di Pulp Fiction di aver “sminuito” ora il cinema Western nostrano, ora la figura di Bruce Lee, stavolta la vittima di un presunto “ridimensionamento” è proprio Welles, per come è stato caratterizzato e soprattutto riguardo il suo ruolo nello script definitivo.
Come detto sopra, sceneggiatura o meno, il contributo del regista al risultato finale resta piuttosto evidente, per usare un eufemismo (ricordando anche, se ce ne fosse bisogno, che ne è l’interprete principale), ma per dovere di cronaca va chiarito che la paternità dello script di Quarto Potere è stata a lungo oggetto di dibattute controversie, soprattutto negli anni ’70, balzata al centro del dibattito culturale scatenato dalla Nouvelle Vague francese sulla superiorità del regista come creatore unico di un film (anche qui, per un maggior approfondimento, si suggerisce la lettura di questo pezzo di Badtaste.it). Semplicemente Fincher sposa una delle tante tesi (lasciandovi il piacere di scoprire quale) che comunque non può che destare una certa curiosità, tenendo sempre presente la sua formazione.

If you keep telling people something untrue, loud and long enough, they’re apt to believe it. 

Accantonando quindi la diatriba su cosa c’è di vero o di “liberamente ispirato”, nel film di Fincher va invece altrettanto riconosciuto quanto sia “vero” e riuscito il personaggio di Mank. Impreziosito dall’ennesima prova magistrale di Gary Oldman che negli ultimi anni sta glorificando la sua straordinaria carriera artistica, la parabola di Herman J. Mankiewicz, diviso tra la schiavitù dei vizi e una maledetta genialità, tra folgoranti utopie e più ciniche disillusioni, è tanto umana quanto tragica, drammatica e profondamente scenica. È nel costruire la sua figura che Fincher gioca col meta-cinema perché, in fondo, è su di lui e non sul film di Welles che intende concentrarsi la pellicola. Non un mezzo per raccontare qualcos’altro, ma il filtro attorno a cui si dipana tutto l’universo narrativo, diviso appunto tra realtà e finzione cinematografica.
Basti pensare che nessuno attorno a lui, nel corso dei dieci anni della storia, sembra invecchiare, tranne lui stesso, come se portasse letteralmente i segni di questa Hollywood così crudele e spietata. La sua vita è un film di cui resta interessante scoprire “come andrà a finire”, come gli dirà Sara, “vera” compagna di vita (una bravissima Tuppence Middleton, sempre cara in questi lidi dai tempi di Sense8); a cui assisterà in prima persona Rita che insieme allo spettatore ne scopre, pian piano, tutte le sfaccettature. Una vita inquadrata nel suo personale Viale Del Tramonto, costellata di rimpianti, di “amori platonici” (e probabilmente no) alla 8 e 1/2, di deliranti momenti annebbiati dall’alcol, che paradossalmente (e poeticamente) riacquisterà vigore proprio attraverso la forza rigenerante e catartica del cinema
Seguendo allora un altro principio cardine della scrittura esplicitato dal film stesso, ossia “raccontare di quello che si conosce”, si capisce perché il processo creativo, come accennato in precedenza, rimane costantemente sullo sfondo: perché nel raccontare Mank, si finisce per mostrarlo del tutto. L’idealismo che inizialmente anima l’ex-giornalista e critico Mank, che guarda sognante (e col portafoglio gonfio) la sfavillante industria cinematografica che l’ha adottato, prima che tutto questo venga presto soffocato da quella “rivoluzione socialista che non c’è stata”, per usare le sue parole. Arte e politica diventano così due facce della stessa medaglia, strumenti di potere ed ipocrisia, di cui lui è stato testimone passivo per anni, addirittura ridicolizzando le rimostranze del sindacato degli sceneggiatori, ignaro di essere in realtà più asservito all’establishment di quanto ritenga, tanto da dargli il suo contributo fondamentale per trionfare, per quanto involontariamente (e dolorosamente).

This is a business where the buyer gets nothing for his money but a memory. What he bought still belongs to the man who sold it. That’s the real magic of the movies.

Al netto quindi della veridicità storica o presunta del racconto dei due Fincher, rimane vivida e centrata “l’impressione” di essere stati spettatori di “una vita intera” che nel generare Citizen Kane trova la sua commovente rivalsa contro quel mondo, che lo ha sfamato ma anche inghiottito e “imprigionato”. Quel lascito artistico che Mank sperava di poter elargire fin dall’inizio della pellicola, viene così reso concreto dall’incontro/scontro generazionale col “ragazzo prodigio” Orson, l’outsider “arrogante”, indipendente, così terribilmente inviso a quella stessa Hollywood che lo ha, invece, già abbandonato. Un’eredità come quella donata da Jack Fincher al figlio David che, con un’età ed una consapevolezza artistica più che matura, riesce finalmente a condividerla col pubblico cinefilo.
Orson dirige e interpreta Quarto Potere, ma l’unico Oscar (su nove nomination) che il film vince è proprio quello da dividere con Mank, con ironica beffa. Proprio come è capitato a David nella sua carriera, almeno fin qui, nominato due volte per la miglior regia, per Il Curioso Caso Di Benjamin Button e per The Social Network, per poi veder premiate le due opere in altre categorie, tra cui la (sacrosanta) miglior sceneggiatura non originale ad Aaron Sorkin.
Una storia di incroci e rimandi che arricchisce ulteriormente l’intera operazione infondendo tanta “verità” e rilevanza a quello che a molti potrebbe sembrare “solo” un esercizio di stile; rappresentazione massima di come, per dirlo con le immortali parole dell’onnipresente Oscar Wilde, “la vita imita l’arte, molto più di quanto l’arte imiti la vita“.


Non perfetto, eppure ricco, ricchissimo (forse troppo) in tutte le sue componenti, diegetiche quanto extra-diegetiche.
Solo il tempo potrà dire se Mank sarà accostato in futuro ad altri immortali “film sul cinema”, nel frattempo riesce però a sancire la fase più alta e matura di una filmografia giungendo quindi al momento giusto per il suo autore. E vista la (ingiusta) storia di David Fincher con l’Academy, perché non lasciarsi andare ad affascinanti suggestioni, considerando quanto la storia degli Oscar sia colma di riconoscimenti tardivi (vedi Oldman), arrivati spesso a celebrare più una carriera che il titolo stesso (magari, a volte, anche “sbagliato”)? Pur se lo si vuol bollare come tale, Mank rimane comunque tra i più elevati, stratificati ed importanti “esercizi stilistici” mai realizzati.
Quindi quanto sarebbe “sbagliato” veder premiato un film sullo sceneggiatore di una delle più grandi pietre miliari del cinema di tutti i tempi (che scatenò successivamente la diatriba sceneggiatore/regista) girato proprio da uno dei più grandi registi/autori viventi che ancora oggi fatica ad essere riconosciuto universalmente come tale? Pura suggestione, ma sognare, in fondo, costa poco.

 

TITOLO ORIGINALE: Mank 
REGIA: David Fincher
SCENEGGIATURA: Jack Fincher
INTERPRETI: Gary Oldman, Amanda Seyfried, Lily Collins, Charles Dance, Tuppence Middleton
DISTRIBUZIONE: Netflix
DURATA: 131′
ORIGINE: USA, 2020
DATA DI USCITA: 04/12/2020

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