Ad una puntata dal finale, la penultima stagione di The Handmaid’s Tale conferma ulteriormente la sua caratteristica intrinseca che segna inesorabilmente la storia. Lo show di Bruce Miller, infatti, risulta continuamente impantanato in un circolo vizioso che prova a prendere in giro lo spettatore dando l’illusione di cambiamenti che però non portano a nessuna vera evoluzione.
Non è la prima volta che il finale di un episodio si fa promotore di sconvolgimenti di fronte per poi naufragare in un nulla di fatto e quanto promesso nei minuti conclusivi di “Motherland” ne è un esempio lampante. Non ci si aspettava di certo una risoluzione liscia e ovvia, tuttavia, l’inesistenza di una vera costruzione intorno al salvataggio di Hannah non può che essere definito deludente.
POCA HANNAH, TROPPO JUNE-NICK
I pochi minuti dedicati in questo episodio ad Hannah sono forse i primi in cui si è vista la figlia di June mostrare un po’ di coscienza di sé. Finora sempre rappresentata come la bambina che giustamente era, Hannah ha raggiunto un punto che può portarla ad un livello successivo nella narrazione. Proprio per questo, le scene a lei dedicate in “Allegiance” hanno aumentato la percezione del suo personaggio, scostando l’idea di una ragazza ormai automa di Gilead per mostrare l’esistenza di una scintilla. Scintilla da cui traspare tutta l’essenza di June, tra il trasgredire la legge (come ben ricorda Serena, a Gilead leggere e scrivere per una donna è proibito) e il rifiuto di rinnegare sé stessa (Hannah si firma con il suo vero nome). Elementi che potrebbero regalare un peso ulteriore alla trama del salvataggio di Hannah, se solo ne venisse data la possibilità.
Il fallimento dell’operazione mostrato in questo episodio, infatti, non risulta deludente a seguito dell’esito negativo, bensì per la totale assenza di costruzione narrativa che ha portato il tutto a concludersi con un nulla di fatto. Si è consapevoli che salvare Hannah significherebbe perdere il collegamento tra Gilead e June e questo, con una stagione ancora da affrontare, frena sicuramente lo sviluppo di tale storyline. Tuttavia, di certo non può giovare alla narrazione neanche questo impasse attuale che continua a colpire soprattutto June.
L’ex ancella è infatti la più colpita dall’assenza di uno sviluppo vero e proprio, continuando a vagare alla cieca di episodio in episodio. “Allegiance” ne è l’ennesima dimostrazione, con l’apice raggiunto all’ennesima conversazione vuota con Nick che non porta a nessun risultato concreto tranne quello di sprecare occupare minutaggio.
GIUSTIZIA DIVINA CON RISERVA
Chi invece si ritrova con un cambio radicale di scena e, di conseguenza, con opportunità narrative nuove è senz’altro Serena. Il destino della signora Waterford era risultato uno dei più interessanti sin dalla season premiere mantenendosi tale fino ad ora. I continui sconvolgimenti di fronte hanno aiutato a dare dinamicità alla sua storia, ampliando l’efficacia emotiva grazie ad un vero e proprio conflitto morale per lo spettatore che si ritrova testimone di questa giustizia divina. Vedere Serena vittima della sua stessa trappola, infatti, porta con sé una sorta di macabra soddisfazione. Ma, passata questa prima fase istintiva, per tutti gli spettatori con un minimo di umanità non sarà stato difficile ritrovarsi a tifare per la stessa Serena nella lotta contro i Wheelers e il ricongiungimento con il piccolo Noah. Un tifo che fa chiudere un occhio anche sulla facilità di alcune situazioni.
La fuga di Serena in questo episodio, infatti, si concretizza in maniera scontata e prevedibile, eppure, i minuti che ne hanno contrassegnato le mosse sono state così ben proposte in scena, sia a livello registico che di turbamento, tanto da creare la giusta suspense con conseguente sospiro di sollievo. Un’evoluzione che adesso pone Serena come vero e proprio jolly per il season finale.
“THIS IS A MARRIAGE PROPOSAL?”
E mentre Serena e June mantengono l’attenzione in Canada, a tenere banco a Gilead è rimasto solo il Comandante Lawrence. Un personaggio che da solo riesce a promuovere un dinamismo sia scenico che dialettico, con un’ironia sempre presente intervallata da momenti più sentimentali. Grande merito va ovviamente al suo interprete Bradley Whitford che per l’occasione si è messo in mostra anche dietro la macchina da presa dirigendo l’attuale episodio.
In “Allegiance” Lawrence diviene protagonista della scena in ben due frangenti, segnando da un lato la strada del suo personaggio, dall’altro quello della trama.
Innanzitutto, appare semplice ma accorta la scelta della nuova moglie che nell’economia di Gilead e dei character che vi gravitano intorno risulta molto funzionale (seppur qui a Recenserie si avevano altre idee decisamente più audaci). Parallelamente alla vita sentimentale che trova stabilità, però, sembra naufragare l’idea di avere June come testimonial di New Bethlehem. Un confronto tra i due che, seppur tenutosi a distanza telefonica, ha esaltato le performance dei due attori, oltre a lasciare un peso specifico nell’economia della trama. Ammesso che June non cambi idee nel prossimo episodio, ovviamente.
TRA FINZIONE E REALTÀ
Ad inizio recensione si è sottolineata la continua presa in giro messa in atto da The Handmaid’s Tale che non sembra intenzionata a far avanzare realmente la trama. Tenendo conto di questo, quindi, come mai la considerazione verso la serie rimane alta?
Al di là di un comparto tecnico eccellente, unito a performance brillanti, il potere di The Handmaid’s Tale sta nella vicinanza sempre più attuale del suo racconto. Sin da quando la serie ha esordito nel 2017, non sono mai mancati i collegamenti impliciti tra la trama ed una realtà non tanto lontana. Cinque anni dopo, la situazione mondiale è così rapidamente degenerata da risultare sempre più uno specchio brutale di quanto mostrato sullo schermo. Un elemento che ha portato Bruce Miller e il suo team a prendere direttamente spunto dalla società contemporanea che, paradossalmente, sta aiutando lo show nella sua trasposizione.
Esempio lampante sono le proteste in Canada, emerse pian piano negli scorsi episodi e subito degenerate, che si fanno portavoce di situazioni specchio dell’attualità. Elementi che, insieme a tutto il resto, favoriscono un interesse sempre più attualizzato per lo spettatore.
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Ci sono tanti elementi che favoriscono The Handmaid’s Tale rendendola a priori una serie apprezzabile e ben fatta. Tuttavia, l’apprezzamento non giustifica la continua presa in giro verso una trama che non ne vuole sapere di evolvere.
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Nata con la passione per telefilm e libri, cresciuta con quella per la scrittura. Unirle è sembrata la cosa più naturale. Allegra e socievole finché non trova qualcosa fuori posto, il disordine non è infatti contemplato.
Tra una mania e l'altra, si fa carico di un'estenuante sensibilità che la porta a tifare per lo sfigato di turno tra i personaggi cui si appassiona: per dirla alla Tyrion Lannister, ha un debole per “cripples, bastards and broken things”.