Finisce così non solo la seconda stagione di Winning Time: The Rise Of The Lakers Dynasty, ma anche tutto quel meraviglioso carrozzone che è questo show creato da Max Borenstein e Jim Hecht.
Subito dopo la messa in onda di questo episodio, infatti, è stata annunciata la cancellazione della serie da parte della stessa HBO, causa i bassi ascolti riscontrati.
Non si sa quanto tale annuncio fosse già preventivato (nonostante l’alta qualità dello show Winning Time non ha mai “sfondato” in termini di share), e quindi quanta consapevolezza ci fosse da parte di autori e produttori. Sta di fatto che “What Is And What Should Never Be” si rivela un ottimo congedo per uno dei prodotti recenti migliori della HBO. Un season finale che sembra studiato apposta per chiudere tutte le storylines presenti e concludere degnamente la saga sportiva che intende rappresentare.
FINALE AMARO
Coerentemente con l’obiettivo dello show e con il titolo, Winning Time è riuscito a riassumere (in maniera forse un po’ troppo affrettata ma comunque efficace) la nascita di una delle dinastie sportive più famose di sempre.
Non servono certo i titoli di coda, infatti, per descrivere la storia dei Los Angeles Lakers e della loro più che decennale rivalità con i Boston Celtics. In particolare, questi ultimi episodi si sono concentrati maggiormente su questo aspetto della storia ma, contrariamente a quanto si possa pensare, la narrazione non ha seguito le normali regole dello storytelling a cui lo spettatore più mainstream è abituato.
Nei precedenti episodi, infatti, si è vista la maturazione dei vari co-protagonisti (Magic Johnson, Kareem Abdul-Jabbar, Pat Riley…) e la costruzione della squadra a livello di spirito di gruppo, nonostante le tensioni interne. Ci si aspetterebbe, a questo punto, un finale “a tarallucci e vino“, con la vittoria dei Lakers sugli odiosi Celtics, come avvenuto durante il corso della storia della NBA. Gli autori, invece, scelgono l’anno 1984, in cui furono proprio i Boston Celtics ad aggiudicarsi il titolo NBA dopo una finale tiratissima con gli eterni rivali (spoiler: che comunque avranno la loro rivincita esattamente l’anno dopo).
Tale finale amaro lascia ancora di più il segno nello spettatore proprio perché vede i personaggi (a cui ormai si è affezionato) perdere la propria occasione di replicare il titolo vinto nella precedente stagione, empatizzando ancora di più con questi ultimi. Ma si parla comunque di un finale coerente poiché il senso di tutta la storia non era certo quello di raccontare le vittorie dei Lakers, quanto quello di mostrare la nascita di un gruppo (società e singoli giocatori) che riempirà comunque, negli anni, le pagine delle cronache sportive.
Per l’appunto la “nascita della dinastia dei Lakers”.
REGIA E CAST
Per raccontare tutto questo, ancora una volta, la regia di Salli Richardson-Whitfield (vera e propria showrunner di questa stagione e degna erede di Adam McKay) delizia lo spettatore regalando quello che, di fatto, è un unico immenso game-match di più di un’ora in cui la telecamera entra letteralmente dentro il parquet di basket.
I vari momenti delle finals 1984 vengono intervallati da dialoghi fra i co-protagonisti, utili per riannodare tutti i fili fra i vari membri delle storylines presenti. Per il resto la puntata è un tripudio di campi-controcampi in cui la palla passa da una parte all’altra con la telecamera a mano che la segue costantemente. Il tutto con il solito filtro retrò, ormai marchio di fabbrica dello show. Per lo spettatore sembra davvero di essere dentro un palazzetto dello sport degli anni 80 ad assistere ad una delle finali NBA più belle di sempre. A questo si aggiungono i continui ammiccamenti e sguardi in macchina dei vari protagonisti (Jerry Buss fra tutti) come se facessero costantemente l’occhiolino allo spettatore. Questo, diversamente da quanto accade di solito, non è da considerarsi errore ma serve sempre a creare quell’empatia necessaria fra personaggio e spettatori.
In tutto questo va elogiato il cast scelto per lo show. Fra tutti ovviamente i due co-protagonisti principali, il già citato Jerry Buss (un immenso John C. Reilly) e sua figlia Jeanie (Hadley Robinson), che proprio qui portano a compimento il personale percorso di formazione con la scena finale che, n0n a caso, chiude il cerchio ricreando (in maniera simbolica) il finale del primo episodio.
CONCLUSIONI
Winning Time: The Rise Of The Lakers Dynasty lascia dunque l’amaro in bocca. Non tanto per il finale in sé (che è perfetto) quanto per la sua affrettata conclusione che avrebbe meritato almeno un’altra stagione.
Rimane comunque uno dei lavori più mastodontici, a livello tecnico e di scrittura, mai realizzati da HBO. Sicuramente uno dei suoi prodotti più innovativi (e non è cosa da poco considerando altri suoi show), sia per la capacità di innovare un genere narrativo (il biopic sportivo) che è abbastanza ostico da scrivere poiché ripetitivo e prevedibile (in genere si sa già chi vince).
HBO dà ancora una volta una lezione in questo senso, sperando che almeno i vari premi di critica riescano, meglio del pubblico televisivo, a rendergli giustizia.
Per lo spettatore, amante del genere narrativo sportivo e non, rimane uno show decisamente ben realizzato, capace di regalare numerose emozioni per tutto l’arco degli episodi.
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Finale di stagione (e di show) perfetto per concludere la descrizione della saga sportiva dei Los Angeles Lakers. Nonostante la rapidità dei vari plot twist interni la regista Salli Richardson-Whitfield riesce a creare un ottimo climax emotivo fino al finale dolceamaro che non lascia comunque indifferenti.
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Laureato presso l'Università di Bologna in "Cinema, televisione e produzioni multimediali". Nella vita scrive e recensisce riguardo ogni cosa che gli capita guidato dalle sue numerose personalità multiple tra cui un innocuo amico immaginario chiamato Tyler Durden!