La seconda stagione di Winning Time: The Rise Of The Lakers Dynasty si avvia alla sua conclusione.
Una stagione decisamente strana, con molti alti e bassi, dovuti principalmente al ritmo schizofrenico degli episodi che hanno riassunto in poco tempo ben tre annate sportive (dal 1980 al 1984).
D’altra parte, la serie creata da Max Borenstein e Jim Hecht non ha mai voluto essere meramente biografica e basta.
Lo show si costruisce sull’empatia continua verso i suoi personaggi protagonisti per descrivere un’epica sportiva, per cui è inevitabile che la descrizione degli avvenimenti segua questa direzione e non tanto i singoli avvenimenti (per cui forse non basterebbero 10 stagioni). La cosa certa è che questa velocità della narrazione ha lasciato certamente un po’ sgomenti gli spettatori che, nella prima stagione, si sono goduti un’unica annata sportiva mentre in “sole” 7 puntate” si è arrivati ad un anno fatidico come il 1984.
NASCITA DI UNA DINASTIA
D’altra parte tale narrazione è comunque coerente con lo spirito dello show e con il leitmotiv che è stato ripetuto fino allo sfinimento da inizio stagione ovvero quello della “dinastia”.
Basta una sola vittoria a creare una dinastia e un mito sportivo? Certamente no. Si tratta piuttosto di un percorso lungo e complesso fatto sì di vittorie ma, soprattutto, di sconfitte nel corso del tempo. Così è stato, fino a questo momento, il percorso dei Los Angeles Lakers che qui raggiungono il proprio climax narrativo pronti per la sfida finale con gli acerrimi nemici Boston Celtics.
L’episodio in questione fa dunque da recap di tutte le principali storylines e conflitti orizzontali visti finora. Dal riconoscimento di Pat Riley come “guru” della squadra e di Magic Johnson come guida e traghettatore di questa, ma anche il re-inserimento di Kareem Abdul-Jabbar (un immenso Solomon Hughes) come membro fondamentale del team, dopo una sequenza lacerante e intensa in cui il vecchio “capitano” della squadra trova il riconoscimento e l’affetto da parte non solo dei compagni ma anche dell’intera città di Los Angeles. E proprio nella simbiosi fra città e squadra (che a sua volta ricalca i due modelli di società statunitense degli anni ’80, una più “progressista” e un’altra più “conservatrice”) che tutti i co-protagonisti dello show si ritrovano per dare vita alla propria “epica”, qui finalmente sostenuta dai diversi cori finali che assumono una valenza da “coro greco” e da catarsi finale di tutta questa seconda stagione.
LE DONNE DELLA NBA
In tutto questo va segnalato come tali storylines abbiano il loro “plot twist principale” nel rapporto fra i vari protagonisti maschili e le loro controparti femminili.
Quasi a voler scusarsi per il poco spazio lasciato ai personaggi femminili (praticamente la sola protagonista femminile a tutti gli effetti della stagione è stata Jeanie Buss), l’episodio in questione riprende alcuni character secondari lasciati da parte come la moglie-guida spirituale di Pat Riley (interpretata da Gillian Jacobs) e soprattutto Cookie (Tamera Tomakili), l’eterna fidanzata di Magic (poi divenuta effettivamente sua moglie). Quest’ultima rende protagonista di una scena emblematica che descrive da un lato la maturità raggiunta dal protagonista dello show, e dall’altro il clima di sessismo (e razzismo) in ambito lavorativo ancora molto in auge negli anni ’80 (e purtroppo attuale ancora oggi).
Si può dire che il rapporto che si crea fra Magic e Cookie serva anche come contraltare per l’altra storyline “di coppia” dello show, ovvero quella fra Jerry Buss e Honey (Ari Graynor). L’evoluzione di quest’ultima coppia, infatti, segue un percorso decisamente “inverso” rispetto alla prima, facendo “regredire” il personaggio di Jerry, ma in modo paradossalmente positivo. È infatti con il ritorno “in campo” del loro presidente (libero dalle zavorre emotive che lo allontanavano da esso) che la squadra può finalmente ricongiungersi e andare dritto all’obiettivo finale (la sfida con i Celtics).
CONCLUSIONI
Non c’è molto altro da aggiungere per un episodio che si dimostra perfetto pur nel suo essere di raccordo. Il solo scopo di “Beat L.A.” infatti è di far convergere tutti i co-protagonisti dello show all’odio verso i propri rivali. Lo fa mettendo insieme momenti decisamente “lenti” (con numerosi dialoghi fin troppo tecnici, soprattutto quelli fra Pat Riley e Jerry West) ad altri altrettanto emozionanti, riuscendo comunque a creare un buon amalgama fra questi. Il merito va sicuramente agli sceneggiatori ma soprattutto alla regia eclettica di Sally Richardson Whitfield, ormai unica vera showrunner della serie, che non fa certo rimpiangere il buon Adam McKay.
Particolarmente rilevanti le scene di “gioco” all’interno del parquet in cui i vari co-protagonisti (non solo dei Lakers) si passano la palla con una naturalezza e una fluidità impressionanti sulle note dei The Who, vera e propria “chicca” di questa puntata in cui regia, cast e soundtrack collaborano alla perfezione fra loro come un vero e proprio team.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Ad un solo episodio dal finale di stagione lo show c’entra l’obiettivo nel descrivere la nascita della storica rivalità fra Los Angeles Lakers e Boston Celtics. Con una serie di climax narrativi efficaci che esplodono in un vero e proprio “coro da stadio” finale non rimane che aspettare il finale di stagione.
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Laureato presso l'Università di Bologna in "Cinema, televisione e produzioni multimediali". Nella vita scrive e recensisce riguardo ogni cosa che gli capita guidato dalle sue numerose personalità multiple tra cui un innocuo amico immaginario chiamato Tyler Durden!