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tick tick... boom! - recensione
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Tick Tick… Boom!

L'opera prima di Lin Manuel-Miranda racconta la commovente storia di Jonathan Larson, con un formidabile Andrew Garfield.

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Nel 1992, Jonathan Larson esegue il suo monologo rock “Tick, Tick… Boom!” al New York Theatre Workshop. Dopo aver descritto un incessante ticchettio che sente nella sua testa, comincia a raccontare la sua storia. Come spiega la voce narrante, il film è la vera storia di Jonathan Larson, “tranne che per le parti inventate da Jonathan.”

Per il suo esordio alla regia, il poliedrico Lin-Manuel Miranda sceglie di mettere in scena lo spettacolo omonimo di Jonathan Larson, raccontando nel frattempo la vita del celebre autore del musical Rent, tra i più grandi successi di Broadway, diventato nel 2005 anche un film diretto da Christopher Columbus. Un “musical dentro un musical”, o ancor meglio “Broadway dentro Broadway”, in cui vita e arte si mescolano nel racconto biografico di uno dei suoi esponenti più brillanti e tragicamente sfortunati. Come risaputo, infatti, Larson perderà la vita proprio la mattina stessa del debutto della sua opera, senza poter godere purtroppo della fama che acquisterà negli anni a venire. Distribuito direttamente su Netflix, il film di Miranda (che agli Oscar 2022 è stato nominato anche per la sua partecipazione in Encanto, nella categoria miglior canzone originale, “Dos Oruguitas”), vanta due candidature, per Andrew Garfield come miglior attore protagonista e per il miglior montaggio.

They’re singing, “Happy birthday”
You just wanna lay down and cry
Not just another birthday, it’s 30/90
Why can’t you stay 29
Hell, you still feel like you’re 22
Turn 30 in 1990
Bang! You’re dead, what can you do?

LA VIE BOHÈME


I due brani con cui il film si apre, validi a presentare il personaggio di Larson e la sua condizione di vita, possono valere anche da manifesto sia della poetica dell’autore, del suo stile compositivo e musicale, sia della forza della sua scrittura e dell’efficacia incredibile sul pubblico. D’altronde “30/90” e “Boho Days” si sono succeduti, in principio, come titolo stesso dell’opera, prima della scelta definitiva ricaduta su “Tick Tick… Boom!”, che Larson portava nei teatri Off-Broadway sotto forma di monologo “rock” (eseguito da lui stesso al piano e accompagnato solo da una rock band) in cui raccontava le sue frustrazioni dopo il fallimento di Superbia.
Ed è proprio questa “verità”, che trasuda dai suoi testi e dalle sue musiche, a rendere i suoi componimenti tanto potenti e universali, con le sue esperienze personali che si confondono con l’attualità, a formare un ritratto generazionale unico, senza filtri, poetico nel suo spietato realismo. Quell’esaltazione della “vie bohème”, da una parte mito letterario, artistico quanto culturale, dall’altra perpetuamente osteggiata e per questo spinta ai margini della società in quanto sinonimo di perdizione e di nullafacenza, nell’800 come negli anni ’90 di Larson e, incredibilmente, ancora negli anni ’20 del nuovo millennio di Miranda.
Entrambi i brani di apertura hanno infatti un tema principale in comune: il tempo. Quelle lancette di orologio che scattano inesorabili per l’autore Larson, in preda allo sconforto nel non riuscire ad ideare il pezzo mancante della sua opera. Quei giorni, mesi o anni, spaventosamente indefiniti che rimangono ai suoi tanti e troppi amici che ricevono la condanna, per l’epoca, della sieropositività. Quel tempo che scorre minaccioso per un’intera generazione sognatrice, costretta a scontrarsi con una realtà ben più complessa e dura, a combattere con un’aspettativa sociale che a trent’anni, appunto, li vorrebbe realizzati, con un futuro già chiaro e definito, di certo non a servire i tavoli di un diner mentre cercano di sbarcare il lunario. Una generazione delusa da quelle promesse che gli erano state fatte, riguardanti quel fantomatico “successo” così vitale, così alla portata di chiunque, ingannati da un’illusione che adesso sembra solo sciocca e infantile. Una generazione che, d’altro canto, rimane comunque capace di resistere strenuamente, di viversi coraggiosamente quel tempo al massimo possibile, qualunque esso sia.

NEW YORK, NEW YORK


Il sogno di Larson era quello di portare il musical alla “MTV Generation” e ciò si riflette non solo nelle tematiche che affronta, come detto, ma anche e soprattutto nella sua musica. Il “pop rock” che anima ardentemente i suoi testi e gli infonde un ritmo tanto accattivante e dannatamente moderno. Nell’anno in cui Steven Spielberg rivisita il classico dei classici del musical statunitense, West Side Story, realizzando il suo ennesimo capolavoro, l’opera prima di Lin Manuel-Miranda ne mostra l’altro lato della medaglia, quello più “povero”, low-budget, decisamente meno “spettacolarizzante”, ma altrettanto fresco, vivo, irresistibilmente seducente.
A fare da sfondo in entrambi casi, d’altronde, c’è sempre New York, con le sue infinite attrazioni e le sue croniche contraddizioni, lontane dal centro luminoso e appariscente di Manhattan, lì dove la città che non dorme mai respira della sua umanità più ricca e, per questo, unica. Un’umanità chiaramente fondamentale per la creatività di Larson, celebrata a più riprese nei suoi scritti, mentre cercava i modi per pagare l’affitto del suo appartamento nel Lower Side della Grande Mela.
Miranda adatta perfettamente il suo taglio visivo a quel gusto metropolitano Off-Broadway, dove, tra l’altro, Rent avrebbe poi riscosso i suoi primi successi, fino ad esser notato dal grande Stephen Sondheim (figura, non a caso, già presente nella pellicola), ossia colui che ad inizio carriera firmò proprio i testi di West Side Story.
Il regista abbraccia la “rivoluzione post-moderna” con cui Larson ridiede di fatto popolarità al musical, con una messa in scena che esalta i suoi virtuosismi ritmici, la sua frenesia e vitalità, ben coadiuvato da un magistrale lavoro di montaggio che d’altronde è stato nominato dall’Academy. E c’è da scommettere che a contribuire alla candidatura in maniera decisiva sia stato proprio quello ammirato in “Therapy”, in cui vita e arte si alternano, fino a mescolarsi indissolubilmente, come anticipato, in una sequenza meravigliosa, nonché eseguita in maniera oltremodo “spettacolare”.

SPECTACULAR SPECTACULAR


Già, perché l’altro immenso valore aggiunto della pellicola sta tutto nella prova del suo attore protagonista, tra i più bravi e talentuosi della sua di generazione, il trentottenne Andrew Garfield (lui che, proprio dopo aver calcato i palchi di Broadway con l’opera teatrale Angels in America ha vinto il Tony Award nel 2018). La sua interpretazione di Larson è un ritratto accorato, commovente nel suo intricato dualismo tra inguaribile passione e disperata sofferenza, che caratterizza tanto la sua sfera lavorativa e artistica quanto i suoi rapporti personali. Il già citato duetto con Vanessa Hudgens (che, pur se in modo differente, ha anche lei inequivocabilmente segnato gli anni duemila) è solo la punta dell’iceberg di una performance capace di cogliere e regalare tutte le sfumature di un genio maledettamente incompreso.
Oltre alla lodevole cifra musicale e tecnica, la bravura dei suoi attori, l’incisività del suo “manifesto generazionale”, tanto valido e forte anche oggi, ciò che infatti risulta forse più interessante, dal punto di vista artistico e narrativo, è il focus sul processo creativo che governa questo parziale racconto della vita di Larson. Miranda sfrutta tutta la potenzialità dell’anima “meta-musical” dell’opera del compositore. Il modo in cui si arriva all’introspettivo “Swimming”, ossia solo quando il protagonista è arrivato alla scadenza massima, avendo nel frattempo tagliato praticamente tutti i rapporti importanti della sua vita, è quanto di più rappresentativo possibile, nel suo parossismo, dell’incondizionato egoismo (e, di conseguenza, paradossale isolamento emotivo) di un’artista. È qui che Garfield mostra le sue armi migliori, con la sua sensibilità e la sua presenza scenica divisa tra spensierata ingenuità e profondo tormento, fino all’esplosione liberatoria in cui comprende di dover “abbracciare i suoi sentimenti” invece di scapparne (con tanto di iconica e sorprendente messa in scena da videoclip pop anni ’90). E il fatto che sia, in fondo, la cronaca di un fallimento rende l’intero racconto infinitamente più significativo e meravigliosamente epico.

 


Un esordio sfavillante per Lin-Manuel Miranda che realizza uno dei migliori film dell’anno, che avrebbe meritato anche maggiori riconoscimenti, secondo forse solo al capolavoro di Spielberg (e di quello dell’“altro” più grande regista vivente, Paul Thomas Anderson), con cui il confronto è per forza di cose impari. Sicuramente rimane un anno fortunato per Broadway, che può godere delle massime rappresentazioni sul grande schermo delle sue due anime, tanto distinte quanto unite dalla passione dei suoi numerosi talenti. Altrettanto certo, e probabilmente più importante, è infatti il sentito omaggio a uno dei suoi più grandi autori, che in tutta la sua bellezza può farsi sentire “louder than words”.
E chissà, magari coinciderà anche con la definitiva consacrazione di Andrew Garfield, dodici anni dopo l’uscita del film che lo consegnò al grande pubblico (nonché lo stesso anno della sua rivalsa come “arrampicamuri”), augurandogli sia arrivato davvero il momento per lui di “prendersi tutto”.

 

TITOLO ORIGINALE: Tick Tick… Boom!
REGIA: Lin-Manuel Miranda
SCENEGGIATURA: Steven Levenson
INTERPRETI: Andrew Garfield, Vanessa Hudgens, Alexandra Shipp, Robin de Jesús, Joshua Henry
DISTRIBUZIONE: Netflix
DURATA: 115′
ORIGINE: USA, 2021
DATA DI USCITA: 19/11/2021

 

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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.

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