“I do this job because I love it. I don’t need a prize. Every day here is the prize. Every life saved. Every fire put out. We’re Seattle firefighters. Station 19 is where we choose to be.”
Station 19 rappresenta la seconda appendice indesiderata, non voluta ed inutile che Grey’s Anatomy, nelle persone di Stacy McKee, Shonda Rhimes, Betsy Beers e Paris Barclay, ha deciso di portare in scena. Le somiglianze, che in molti aspetti sfociano nell’essere una brutta copia, sono già riscontrabili dal font e dalla costruzione stilistica del titolo: la scritta “Station 19” è letteralmente identica, nella sua conformazione, a quella di Grey’s Anatomy. Probabilmente già con il titolo si sono ritrovati senza idee fresche.
E’ intuibile, quindi, quanto il resto del prodotto sia in maniera nauseante identico al capofamiglia.
Drammi famigliari e lavorativi, sesso, triangoli amorosi, amicizie inossidabili, casi lavorativi ancora più banali e senza un vero sbocco di fantasia, personaggi piatti e monocorde.
In sintesi questo è Station 19 e la recensione potrebbe tranquillamente concludersi qui: chi si è avventurato nella visione della puntata sapeva a cosa andava incontro quindi o l’ha fatto per un semplice amore verso l’avventura, oppure è un grande fan di Shonda e pende dalle sue labbra in maniera ossessiva. In entrambi i casi, la recensione sarebbe già più che sufficiente, ma per dovere di completezza procederemo ad analizzare in misura maggiore questo piatto pilot, successivo agli avvenimenti del backdoor pilot di un paio di settimane fa.
Partendo dai dettagli, per poi ampliare la visione d’insieme, bisogna per forza di cose far menzione dell’utilizzo della musica all’interno della puntata: Shonda ha da sempre avuto la passione musicale, basti pensare ai titoli di ogni singola puntata di Grey’s Anatomy o a canzoni rese iconiche da determinati finali di stagione proprio dalla serie ABC. In Station 19, però, la presenza è massiva, protratta nel tempo tanto che, ad un certo punto, può sembrare quasi di star vedendo un video musicale piuttosto che la puntata di un serial televisivo. Nei primi quindici minuti le canzoni cambiate sono circa quattro e ricoprono gran parte del minutaggio, evidenziando quindi un’assenza decisa da parte dei dialoghi che solo più avanti nell’episodio riescono a ritagliarsi il loro giusto spazio. Tuttavia, si tratta più di punchline forti e frasi ad effetto, piuttosto che veri e propri dialoghi che invogliano lo spettatore ad empatizzare con i personaggi in scena.
Relativamente ai personaggi, l’unico effettivamente ben presentato è Andrea, visto e considerato che ogni altro personaggio secondario bene o male gravita per forza di cose attorno a quella che può tranquillamente essere considera come figura principale della serie. Tutta questa interconnessione può funzionare, a suo modo, perché Jaina Lee Ortiz porta in scena una prestazione recitativa funzionale e valida, ma a lungo andare questa dipendenza può solo che far male visto e considerato che nessuno degli altri pompieri riuscirebbe ad avere senso in sua assenza.
Fa eccezione, per forza di cose, Ben Warren per cui andrebbe aperto un discorso a parte: in Grey’s Anatomy era uno dei personaggi introdotti in corsa forse più valido, ma ha le spalle abbastanza grandi da sobbarcarsi il compito di rappresentare il punto di congiungimento tra Station 19 e Grey’s Anatomy? Figurativamente, Jason George sì, ma il personaggio sicuramente no. Fortunatamente ci sono anche Meredith e Miranda a spalleggiarlo, anche se forse, data la qualità ormai scadente del serial principale, sarebbe meglio riuscire a navigare a vista senza ulteriori punti di appoggio.
Inizialmente si parlava degli schemi narrativi che Station 19 ricopia pari pari, analizzandoli più da vicino essi sono:
- presenza massiva della musica;
- voce fuori campo con morale annessa presentata dal personaggio principale (Andrea);
- triangoli amorosi;
- Andrea e Maya: una versione più gggiovane di Meredith e Cristina;
In aggiunta a ciò, la serie si supera e presenta un nuovissimo elemento davvero funzionale alla presentazione della storia: i flashforward predittivi che altro non sono piccoli riassunti delle scene subito successive agli stessi. In pratica sono alcune immagini in sequenza, presentate con un filtro fotografico sfocato, di scene che verranno presentate dallo show da lì a pochi minuti. Non sia mai che lo spettatore non riuscisse a star dietro alla difficile trama del serial.
Risulta difficile aggiungere altro se non un blando: ma chi glielo ha fatto fare?
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Stuck 1×01 | 5.43 milioni – 1.1 rating |
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Conosciuto ai più come Aldo Raine detto L'Apache è vincitore del premio Oscar Luigi Scalfaro e più volte candidato al Golden Goal.
Avrebbe potuto cambiare il Mondo. Avrebbe potuto risollevare le sorti dell'umana stirpe. Avrebbe potuto risanare il debito pubblico. Ha preferito unirsi al team di RecenSerie per dar libero sfogo alle sue frustrazioni. L'unico uomo con la licenza polemica.
Tengo a precisare una cosa: anche le serie Chicago hanno tutte lo stesso logo, è un marchio di fabbrica che ci può stare… solo che le prime non possono proprio competere con questa infinita noia di episodio.
I flashforward poi? Che senso avevano? Questa serie non ha già più nulla da raccontare, proprio come Grey’s Anatomy da 5 anni a questa parte.